Ettore Scola, scrittore di cinema
Di sé stesso e del suo lavoro Ettore Scola dava una definizione importante: «Non mi sento un regista, ma uno scrittore di cinema». Che era un modo di rifiutare i ruoli, le definizioni troppo stringenti, le specificità, a favore di una capacità onnicomprensiva di raccontare e rappresentare storie, personaggi, situazioni, che in lui è sempre stata presente sia quando ha scritto copioni (per altri registi o per se stesso), sia quando, poco più che15enne, ha iniziato la sua avventura di autore inventando battute, disegnando e scrivendo storielle nella redazione del
Marc’Aurelio, una rivista umoristica che ha fatto storia perché da lì è partita una generazione di cineasti e una felice stagione del cinema italiano.In realtà, Scola è sempre stato un caso “a parte” nel panorama cinematografico nazionale. Considerato un maestro della commedia all’italiana, in realtà se ne è allontanato presto e comunque ne ha rappresentato l’anima più agra, rovesciando spesso la risata nel ghigno, il disincanto in sberleffo. Intrapresa poi la strada dell’autorialità ha proseguito a zigzag, passando da grandi film generazionali (C’eravamo tanto amati, La terrazza, La famiglia) a commedie più intime e drammatiche (Una giornata particolare), da film storici addirittura epocali (Il nuovo mondo) a vere sfide d’autore, autentici prototipi (Ballando ballando), da commedie nere portate fino al limite dell’insostenibile (Brutti, sporchi e cattivi) a film militanti (Trevico-Torino: viaggio nel Fiat-Nam), frequentando ogni tanto la grande letteratura, mai in modo banale: il realismo magico di Bontempelli con qualche occhiata a Swift, la letteratura acida e respingente di Durremat (La più bella serata della mia vita) e l’attrazione per il patologico e l’abnorme di Tarchetti (Passione d’amore). Un’autorialità indubbia che non si misura però a livello di stile (che cambia ad ogni film) ma da certi elementi che ritornano (una vena anarcoide, un entusiasmo visto nel momento che declina, il peso della solitudine, la sconfitta) e naturalmente dal modo di raccontarli, spesso con scene senza dialogo o viceversa con un monologo, a volte con la forza repentina della vignetta.
Si pensi al dirigente Rai caduto in disgrazia in La terrazza, che misura la decadenza del suo status dallo stringimento della stanza d’ufficio, con gli operai che gli spostano la parete mezzo metro per volta. Oppure col modo di esprimersi di alcuni personaggi. In Dramma della gelosia, la fioraia interpretata da Monica Vitti parla come un’eroina dei fotoromanzi, mentre Oreste, l’operaio comunista, si esprime con la lingua in uso nelle sezioni del PCI. Durante un comizio di Ingrao, interpella il suo segretario di sezione: «Senti: il fatto che Adelaide mi tradisca con uno più ricco di me, in che misura si può inserire nella battaglia condotta dal partito per una società di liberi ed uguali?». E’ una scenetta di pochi secondi che potrebbe tranquillamente essere una vignetta disegnata da Altan per Repubblica. Ma Scola l’ha realizzata più di 60 anni fa.
A ben vedere l’impronta del “vignettista” torna di continuo in Scola, spesso ben celata, sempre però a servizio del linguaggio del cinema e dell’esito. Si pensi all’esuberanza fisica, al trucco grottesco, all’eccesso di molti personaggi de I nuovi mostri o alla sagomatura di certi allampanati frequentatori della balera di Ballando ballando, tutti caratteri che appartengono ad una corda pazza derivata da un immaginario satirico e vignettistico. Un immaginario che del resto Scola non ha mai sconfessato, da cui semmai ha continuato a trarre giuste lezioni, come nel recente Che strano chiamarsi Federico, dove tra l’altro, proprio rievocando la stagione del Marc’Aurelio, recuperava quanto di prezioso potesse esserci stato pure in epoche ingiuste e infelici. E’ il dono della saggezza, ma Scola nelle interviste diceva che in realtà era solo il buon senso derivato dall’età, ed è, aggiungeva, un «modesto consigliere». E a proposito di giovani e di anziani amava anche citare una frase di Balzac, uno scrittore da lui molto amato: «l’unica cosa che possiamo fare per i giovani è invecchiare». Scola sapeva fare di più.
A me è capitato di ascoltarlo qualche tempo fa, a Roma, durante una manifestazione contro l’ennesima minaccia di chiusura di una sala cinematografica. Ed era il più battagliero, il più giovane tra i giovani.
di Piero Spila