Dal pulp al trash movie
Nel cinema nordamericano la violenza è un paradigma necessario senza il quale, forse, verrebbe a mancare quel contributo creativo essenziale in quanto diretta espressione di una società malata nelle sue strutture più profonde.
Paradigma estetico laddove l’idea di violenza viene sempre più prepotentemente assumendo la fisionomia di una scommessa neoformalistica. Dal principio di violenza sociale e antropologica, leggibile in senso etico nell’opera di autori moderni come Arthur Penn, Sam Peckinpah e Martin Scorsese, si è passati con spudorata leggerezza all’idea di violenza come oltraggio visivo, come forma pura di cinema le cui storiche radici vanno ricercate nell’intuizione della roulette russa de “Il cacciatore” e nell’oscuro regno dell’orrore sublime di Kurtz-Brando in “Apocapypse now”.
In tale prospettiva il presunto capolavoro dell’ex ragazzo di bottega Quentin Tarantino “Pulp fiction” viene ad assumere un ruolo tanto esemplare, quanto epocale, sebbene in esso si esaurisca la stessa estetica pulp.
L’uso sistematico della violenza nel cinema non deve essere confuso con il riemergere della fiction violenta propria del trash movie, cui lo stesso Tarantino sembra essersi ispirato.
Infatti esiste ancora una differenza tra la violenza sublimata in una prospettiva etico sociale e un’altra il cui scopo è l’autorappresentazione, ossia laddove la pellicola stessa diventa terroristicamente e virtualmente un oggetto violento, il cui fine è appunto quello di intrattenere il pubblico bisognoso di dosi sempre più massicce di crudeltà e di sadismo (si badi però, non nell’accezione artaudiana!), forzandone la percezione visiva a livelli insostenibili. Anche in tal caso vale ricordare la metafora dello sguardo dello spettatore complice dello spettacolo della violenza, ne “L’angoscia” di Bigas Luna che suggerisce l’ipotesi di diverse patologie della visione.
La recente riscoperta di registi come Russ Meyer (a cui perfino viene dedicato un saggio) o John Waters (recente è la sua autobiografia in lingua italiana), che pure intrattengono un rapporto per lo più antagonistico (sia pur con enti assai discutibili) con il sistema morale e sociale americano colto nei suoi vizi e i suoi orrori, in realtà prepara il terreno per una rivalutazione pseudo critica di massa del cosiddetto trash-movie nostrano, dove il mix di violenza, horror, cinismo di corpi scomposti, decomposti e vivisezionati dovrebbe trasmettere un’idea di trasgressione visiva e di provocazione permanente.
Ma la violenza nel cinema d’autore è veramente diversa da quella di un trash movie splatter o gore?
Per alcuni sembra non vi siano differenze. Si può esultare di fronte ad un film di Abel Ferrara (profeta della violenza come prova tangibile del peccato originale), come ad un “Cannibal Holocaust” di Ruggero Deodato. Da un segnale così preoccupante deduciamo il principio della violenza come codice genetico del cinema Usa, ma anche come codice di identificazione che permette una perfetta comunicazione tra il cineasta e il suo pubblico, tra rappresentazione e percezione dell’immagine. La violenza rivela il proprio carattere sublime e sublimimale creando l’illusione prospettica (che è già nella stessa natura del cinema) di un realismo hard che dilaterebbe in modo estremo i confini della fiction. Si assiste così al trionfo del cinema come arte autoreferenziale, neoformalistica, che suggerisce un’interpretazione sempre più incentrata sul lessico, sulla tecnica che non sulle idee che vengono perlopiù ridotte a pura azione. Non bastano appunto idee sulla sceneggiatura e sul montaggio per dare ad una storia e ai suoi personaggi un autentico spessore realistico.
Se i primi due film di Tarantino rappresentano le due opposte interpretazioni della violenza, in chiave di tragedia il primo, di fumetto ironico il secondo, non vi è dubbio che sia “Le iene” l’anello mancante di una nuova ed interessante interpretazione del realismo noir.
di Maurizio Fantoni Minnella