Corea del Sud: una Hollywood nel cuore dell’Oriente
Pubblichiamo il capitolo introduttivo del saggio di Paolo Bertolin dedicato al cinema coreano che verrà pubblicato in versione integrale nel numero 37 di CineCritica.
Nell’ultimo lustro, il cinema della Corea del Sud è riuscito a scalzare il prodotto hollywoodiano dal dominio del mercato interno, ad imporsi come fenomeno economico-culturale transnazionale nell’area asiatica orientale e sud-orientale e ad occupare una permanente posizione di riguardo nelle selezioni dei grandi festival internazionali. L’anno scorso la Corea del Sud ha avuto due film invitati in concorso sia a Cannes sia a Venezia e ha conseguito ai tre maggiori festival europei una tripletta di allori ineguagliata (Grand Prix a Cannes per Old Boy di Park Chan-wook, miglior regia a Berlino e Venezia, in ambo i casi a Kim Ki-duk per i suoi Samaria e Ferro 3 ). La success story del cinema coreano sia sul piano economico sia su quello artistico ha negli ultimi anni ingenerato interesse in ambito critico ed accademico come nessun’altra cinematografia nazionale. Senza cadere in scontati trionfalismi, questo articolo proporrà un’analisi sintetica del “boom” del cinema commerciale coreano, nonché una serie di stimoli e chiavi di lettura per una comprensione complessiva del fenomeno coreano, situato e (ri)posizionato negli sviluppi globali dell’economia e del linguaggio cinematografico.
L’Era del Blockbuster Coreano:
come creare una Hollywood contro Hollywood
La prima tappa della cosiddetta “Era del Blockbuster Coreano” va collocata nel 1999, quando Swiri di Kang Je-gyu, thriller spionistico incentrato su un tentativo di attentato da parte di infiltrati nord-coreani che per molti versi si potrebbe descrivere come un Nikita coreano, infrange i record d’incasso di Seoul, scavalcando con ampio margine il precedente primato di Titanic e totalizzando oltre sei milioni di spettatori su scala nazionale. L’anno successivo, JSA – Joint Security Area di Park Chan-wook (invitato in concorso a Berlino 2001) tematizza nuovamente la divisione tra Nord e Sud, immaginando un mystery alla Rashomon sulla zona demilitarizzata del 38° parallelo, e, per la prima volta in un film mainstream sud-coreano, trasgredisce i precetti di de-umanizzazione e bestializzazione dei nord-coreani, nel passato fatti strettamente rispettare dalla censura locale . A Seoul JSA supera Swiri negli incassi, ma a livello nazionale si ferma a 5.8 milioni di spettatori. Nel 2001 s’impone però un nuovo campione assoluto, Friend di Kwak Kyung-taek, storia ampiamente autobiografica di un gruppo di amici d’infanzia separati nel corso degli anni dal coinvolgimento nel mondo della criminalità organizzata, che supera il tetto degli otto milioni di spettatori. Nel frattempo, la quota di mercato del cinema coreano passa dal 20% circa del pre-Swiri al 39% del 1999 e supera per la prima volta il 50% nel 2001, mentre le top ten di fine anno verificano una progressiva estromissione del prodotto americano.
La creazione pressoché dal nulla di una solida industria di prodotti mirati alle ampie platee è stata da più parti spiegata come il risultato di una favorevole e inattesa congiuntura coniugante fattori politici, culturali ed economici. La Corea del Sud è uscita da un lungo periodo di dittatura militare solo alla fine degli anni ‘80 e ha attraversato un travagliato percorso di transito alla democrazia segnato in parallelo dal balzo verso una società del consumismo e materialismo spinto. In seguito alla rimozione delle limitazioni governative sull’importazione di film stranieri nel 1988, i coreani hanno iniziato ad avere accesso ad una varietà di prodotto mai prima sperimentata, che ha portato ad un’entusiastica (ri)scoperta del cinema. Già nel 1998, in un articolo su Sight & Sound divenuto celebre, Tony Rayns ribattezzava la Corea “Cinephile Nation”. La devastante crisi asiatica del 1997 fu poi, paradossalmente, la condizione preliminare allo sviluppo della fiorente industria del cinema, poiché spronò molti investitori, nonché i conglomerati o corporation locali, chaebol in coreano, a tentare una diversificazione d’investimenti, che comportò un fluire di capitali inevitabilmente crescente in seguito ai primi, inattesi e redditizi, successi.
Come il nuovo apparato industriale si sia evoluto, riprodotto e consolidato è in prospettiva anche più interessante. Il settore cinematografico si è infatti tendenzialmente organizzato secondo le logiche di un modello d’integrazione verticale delle attività di produzione, distribuzione, esercizio, nonché promozione e sfruttamento dell’indotto derivante dal settore video o dalla vendita di diritti internazionali, che, dal 2001 in avanti, si è consolidato per affiliazioni più o meno dirette intorno a due major locali, CJ Entertainment e Cinema Service; l’equilibrio competitivo tra i due studio è ritenuto come uno dei capisaldi dello sviluppo del boom coreano. A complemento di una struttura integrata la nuova industria coreana si è consolidata attraverso l’istituzione complementare di uno star system cinematografico locale e di una progettualizzazione della produzione basata sulla nozione di genere. Da un lato, per chiunque si sia recato in Corea negli ultimi anni è difficile non imbattersi nelle tracce del divismo del nuovo cinema coreano: dalle copertine delle riviste ai commercial televisivi con Kwon Sang-woo (idolo delle teenager e protagonista di due dei più grandi successi degli ultimi anni,My Tutor Friend e Once Upon a Time in High School), dai cartelloni pubblicitari con Yoo Ji-tae (Old Boy, Natural City) o lo stesso Kwon alle vetrine di negozi. Il recente suicidio della bella e brava Lee Eun-ju, scoperta da Hong Sang-soo in O! Soo-jung!/Virgin Stripped Bare by Her Bachelors e primo ruolo femminile di Taegukgi ha provocato un sentito cordoglio nell’opinione pubblica. Il divismo è inoltre divenuto un portentoso grimaldello per l’accesso ai mercati dell’Asia orientale e sud-orientale: a Tokyo si possono facilmente trovare atlanti dello star system coreano, ovviamente stampati a Seoul… Cinema, musica pop e drammi televisivi coreani si sono imposti in quest’area del mondo come il must cool del momento. D’altro canto, lo sfruttamento dei generi di successo è perseguito in Corea con la stessa spinta all’esaurimento di Hollywood.
Un buon esempio lo dà il nuovo horror coreano, iniziato da due pregevoli film capostipite di una serie sullo sfondo di licei femminili in cui violenza scolastica, emarginazione e relazioni omosessuali originano brividi sottili ma intensi e duraturi, Whispering Corridors di Park Ki-hyung e Memento Mori di Kim Tae-yong e Min Kyu-dong, salutato all’uscita francese dagli osanna dei Cahiers du Cinéma. Il genere s’è presto ridotto alla proliferazione di repliche pleonastiche, tra le quali si possono annoverare un remake del giapponese Ring di Nakata Hideo firmato da Kim Dong-bin e antecedente quello americano di Gore Verbinski, e il mediocre Phone di Anh Byung-ki, che lo scorso anno il pubblico delle sale italiane, privato e ignaro delle istanze migliori dell’horror asiatico dell’ultimo decennio, ha nondimeno abbracciato con l’entusiasmo di un’epifania. Tra i molti flop artistici e commerciali, l’eccezione del blockbusterTwo Sisters di Kim Jee-woon, trionfo di un cinema esasperatamente estetizzante e visivamente tronfio, ma svuotato delle viscere di un dramma solo potenzialmente squassante. Altro genere caposaldo del nuovo cinema coreano è la commedia romantica, spesso derivata da romanzi pubblicati originalmente su internet: a stabilirne i parametri, ineguagliati, è stato My Sassy Girl di Kwak Jae-young, il film coreano che ha riscosso il più ampio successo nei mercati asiatici (da tempo si parla di un remake hollywoodiano). I canoni del genere prevedono una sovversione dei ruoli di genere maschile e femminile e soprattutto una commistione di sapori variegati, un po’ alla maniera del bibimbab, il piatto coreano in cui verdure, carne o pesce si mescolano tutti assieme in una ciotola di riso.
Piuttosto che fornire un modello alternativo a Hollywood, l’industria cinematografica coreana ha quindi attuato un’appropriazione di strategie economiche e politiche industriali consolidate. Con tutto ciò che questo comporta, a cominciare dall’instabilità strutturale derivante dall’incremento vertiginoso dei budget e della quota di spese derivante dall’investimento promozionale. Quando nel settembre 2002 il film coreano più costoso di tutti i tempi, Resurrection of the Little Match Girl di Jang Sun-woo si trasformò pure nel più dispendioso fiasco di sempre, non arrivando a recuperare neppure le spese di promozione, molti profetizzarono la fine del boom del cinema coreano.
Nel 2003, proprio nel momento in cui le produzioni ad alto budget infilavano un flop dietro l’altro, alcuni film di qualità dai costi più contenuti si sono imposti ai vertici del box office, in primis l’encomiabile Memories of Murder di Bong Joon-ho che maschera sotto i sembianti del serial killer thriller un ritratto della Corea della dittatura negli anni ‘80, Untold Scandal di E J Yong, adattamento de Le Relazioni Pericolose di De Laclos all’epoca della tarda dinastia Choseon, La Moglie dell’Avvocato di Im Sang-soo e Old Boy di Park Chan-wook. Alla fine dell’anno poi, l’atteso Silmido di Kang Woo-suk, che ricostruisce gli eventi reali che coinvolsero un corpo speciale formato da condannati a morte addestrato sull’isola di Silmi al fine di attentare alla vita del dittatore nord-coreano Kim Il-sung, ha stabilito nuovi record d’incasso, superando velocemente i nove milioni di spettatori. A meno di un mese dall’uscita di Silmido, nel gennaio 2004, è però uscito il nuovo film di Kang Je-gyu, Taegukgi (il nome della bandiera sud-coreana). Prima epopea sulla guerra di Corea (1950-53), con due fratelli a combattere su fronti opposti, toni sanguigni da mélo e spettacolarizzazione all’americana del conflitto, Taegukgi ha totalizzato 11,700,000 spettatori, surclassando gli 11,000,000 di Silmido. La quota di mercato dei film nazionali si è stabilizzata nel passato biennio ampiamente sopra il 50% e dei 74 film coreani usciti nel 2004 ben 27, più di un terzo, hanno totalizzato più di un milione di spettatori . I timori del collasso paiono dunque oggi archiviati. O forse giusto procrastinati; a quando la sclerotizzazione di un modello che tende a rimpiazzare creatività ed originalità con la politica dei valori spettacolari e della qualità tecnica soffocherà da sé per l’escalation dei costi, o a quando il vicino cinese saprà costruire o ricreare (con la complicità interessata di Hollywood?) un suo modello di cinema mainstream internazionalmente competitivo, di cui il successo globale dei wuxiapian di Zhang Yimou o il recente Gegexili di Lu Chuan, prodotto dalla Columbia Asia e primo esempio di film commerciale cinese che “funziona” pure ai festival , paiono essere i prodromi…
di Paolo Bertolin