Cinema israeliano contemporaneo: tra psicoanalisi collettiva e indagine sociale

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cinemaisraelianocontemporaneoA un’analisi poco approfondita, il crescente fenomeno riguardante il cinema israeliano contemporaneo potrebbe apparire singolare, ma ad una lettura più attenta è possibile accorgersi di un elemento preciso: la notorietà (tra critici e cinephiles, e anche in parte tra il pubblico) raggiunta da alcuni lungometraggi prodotti e girati in Israele è solo la punta di un iceberg costituito da un ampio movimento artistico già riconosciuto e accettato in ambito letterario e più propriamente artistico. La cultura israeliana da anni si esprime in modo mai anonimo nelle più importanti manifestazioni mondiali attraverso i suoi intellettuali ed è sottoposta a un serrato monitoraggio, di impostazione politica più che artistica, da parte dei media e delle istituzioni internazionali. Questa particolare pressione mediatico/culturale ha indotto scrittori, artisti, cineasti a elaborare forme linguistiche straordinariamente efficaci, nel tentativo di parlare in maniera chiara e toccante, e in modo di arrivare al maggior numero di persone possibile. Gli autori cinematografici israeliani si sono trovati nella condizione di svolgere un ruolo comunicativo di fondamentale importanza ma ciò non ha mai intaccato lo spirito autoriale delle loro opere. Ciò che emerge da questo “movimento non organizzato” è lo stato di un paese, certamente controverso e attraversato da tensioni e contraddizioni, ma sempre profondamente connesso al concetto di democrazia. I registi di Israele agiscono, dunque, in una situazione di libertà espressiva (a parte qualche raro ed estremo caso, relativo ai decenni passati) e proprio per tale motivo riescono a veicolare un’immagine di una Israele diversa, che spesso non combacia con quella che i mass media occidentali propagandano nel loro maldestro lavoro. Ed ancora: non è un caso che tutti i maggiori cineasti israeliani, così come i grandi artisti e i più importanti scrittori, siano critici nei confronti delle posizioni assunte dai vari governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Questa scelta di libertà ha il suo corrispettivo istituzionale nell’ambito dell’attività dell’Israel Film Fund, ente pubblico preposto alla produzione e promozione dei film israeliani sovvenzionati dal Ministero dell’Educazione, della Cultura e dello Sport, che però opera secondo scelte puramente professionali, tecniche, commerciali e artistiche totalmente autonome rispetto alle eventuali tendenze espresse dalla politica nazionale (non è dunque un caso che nel listino dell’IFF sia, ad esempio, rintracciabile anche il film del regista palestinese Hany Abu Assad: Paradise Now). D’altra parte la posizione di autodeterminazione nella quale operano i cineasti Tel Aviv e Gerusalemme rispecchia anche la libertà totale della stampa israeliana, sia cartacea che televisiva, all’interno della quale il dibattito socio-politico è sempre vivissimo, pieno di idee e mai allineato passivamente con i governi del paese. Questa condizione ha favorito lo sviluppo di un movimento registico che nell’ultimo decennio ha fornito risultati confortanti, non tanto sotto il profilo strettamente economico, quanto piuttosto sotto quello dei riconoscimenti ricevuti nelle più importanti manifestazioni cinematografiche internazionali, dal Festival di Cannes (ricordiamo il Premio Camera d’Or vinto dal film Meduzot/Meduse del duo registico Etgar Keret/Shira Geffen, quello per la migliore interpretazione femminile assegnato a Hana Laszlo per Free Zone di Amos Gitai, sempre al Festival di Cannes) a quello di Berlino (Premio per la Miglior regia a Joseph Cedar per Beaufort), fino al Premio Oscar, con la nomination nella categoria Miglior Film Straniero, per Waltz im Bashir/Valzer con Bashir di Ari Folman. Ed è in questo quadro planetario va anche collocata la scelta 45a Mostra Internazionale del Cinema Nuovo di Pesaro di inserire nel programma ufficiale una retrospettiva dedicata proprio all’evoluzione del cinema israeliano contemporaneo.

Ebbene, tale diffusione internazionale di alta qualità ha determinato effetti anche nella distribuzione italiana che negli ultimi tempi ha deviato il suo sguardo da Amos Gitai, “caposcuola” della cinematografia contemporanea israeliana, per soffermarsi in modo adeguato su altri figure autoriali. Così, oltre ai già citati Meduse e Valzer con Bashir, gli schermi di casa nostra hanno ospitato lungometraggi come HaKala HaSurit/La sposa siriana e Etz limon/Il giardino di limoni di Eran Riklis, LaLechet al Hamaim/Camminando sull’acqua di Eytan Fox, Mishehu Larutz Ito/Qualcuno con cui correre di Oded Davidoff e Bikur HaTizmoret/La banda di Eran Kolirin, mentre sono rimasti fuori dalla distribuzione italiana altre pellicole degne di nota come Shiva/Seven Days di Shlomi e Ronit Elkabetz, il già citato Beaufort di Joseph Cedar e i più recenti lavori di Amos Gitai: Disengagement/Disimpegno (film al centro di una polemica tra lo stesso Gitai e l’Istituto Luce) e Meuhar Yoter/Plus tard tu Compendras.

Ma quali sono i temi affrontati dai cineasti israeliani contemporanei? In primo luogo, l’analisi della situazione del paese dal punto di vista sociale, politico e bellico. Si tratta di uno sguardo autocritico dai toni severi, realistici, razionali. Ovviamente, argomento di partenza è la condizione del popolo israeliano, tra ossessione del conflitto nei confronti del mondo arabo/palestinese, tensioni sociali, disagio psicologico e desiderio sincero di trovare una soluzione politica che possa portare alla tanto agognata pace che gli accordi di Oslo del 1993 avevano prefigurato ma che poi i tragici eventi hanno spazzato via. Ciò che emerge da numerosi film israeliani è una condizione di sofferenza e di dubbio. Si tratta di una gigantesca psicoanalisi collettiva, senza sconti, che spesso si trasforma in una drammatica presa di coscienza di responsabilità e colpe. Se si paragona tale massa contenutistica a quella di cinematografie di altri paesi altrettanto problematici sotto il profilo politico, si ha la netta percezione di come gli intellettuali/cineasti israeliani abbiano la capacità/possibilità di dirigere il loro sguardo dentro la realtà in cui vivono senza però cadere in una sterile autoreferenzialità e, meno che mai, senza operare in una posizione contigua al potere. Prendiamo il caso dell’opera che più di ogni altra ha ultimamente suscitato la discussione in Italia e nel mondo: Valzer con Bashir (2008) di Ari Folman. Si tratta di un lungometraggio basato su un articolato dispositivo linguistico, ideato e messo in atto per poter esprimere in maniera adeguata una condizione di dolore introiettato che moltissimi israeliani, coinvolti direttamente in una delle tante guerre di Israele, vivono. Valzer con Bashir può essere considerato un “docu/fiction/animation”. Si tratta di un testo meticcio che rappresenta una sorta di concezione sintetica del linguaggio cinematografico e visuale e che ha una corrispondenza euritmica con il contenuto del film stesso. Il protagonista, oltretutto, è lo stesso regista Ari Folman, il quale inseguendo i suoi personali fantasmi connessi alla sua esperienza di soldato durante la Guerra del Libano del 1982, finisce per mettere a fuoco con cura tormenti molto più diffusi in Israele di quanto si sia portati a pensare in Europa. Nel film, Ari Folman investiga sulla sua esperienza militare del 1982, accorgendosi come i punti rimossi dalla sua psiche siano molto più evidenti rispetti ai ricordi vivi. Il regista tenta di colmare il vuoto che il suo cervello ha creato intorno alla spaventosa tragedia di Sabra e Shatila: l’eccidio, da parte dei Falangisti cristiano-libanesi alleati di Israele, di inermi palestinesi nel campo profughi posto alla periferia di Beirut. I militari israeliani non parteciparono attivamente (ciò è provato con certezza) ma non fecero nulla per impedire che il massacro fosse messo in atto e tale comportamento portò da parte della Commissione di inchiesta israeliana la richiesta della rimozione dal suo incarico dell’allora Ministro della Difesa Ariel Sharon. Questo atroce evento è rimasto negli anni incuneato nell’inconscio del regista che ha scelto di girare Valzer con Bashir come se fosse una sorta di personale indagine psicoanalitica. Questa impostazione necessitava, dal punto di vista espressivo, di una procedura in grado di creare il necessario distacco affinché l’impianto documentaristico fosse solido, inattaccabile. Folman ha così deciso di filmare le interviste che compongono l’opera e di “girarle” nuovamente attraverso la tecnica dei disegni animati, aggiungendo ai brani delle interviste fatte a ex commilitoni o a giornalisti alcuni passaggi filmici che invece sono la raffigurazione visuale dei suoi stessi fantasmi interiori. In tal senso, è emblematica la sequenza di apertura in cui degli inquietanti e feroci cani neri percorrono a gran velocità le strade di Tel Aviv come se volessero inseguire e aggredire qualcuno, trovare e punire gli artefici della “strage”. Il film di Ari Folman occupa nel cinema israeliano contemporaneo una posizione centrale; è uno spartiacque, un testo catartico che ha avuto una sua funzione di carattere terapeutico per molti ex soldati israeliani. Rivivere attraverso il distacco dell’animazione cinematografica il massacro di Sabra e Shatila è servito per riesaminare con la doverosa attenzione un accadimento che ha segnato non solo la storia del Medio Oriente ma anche l’animo di migliaia di famiglie palestinesi e di giovani israeliani che si ritrovarono a dover combattere in Libano senza comprendere esattamente l’orrore a cui andavano incontro.

Il tema della guerra e del conflitto con il mondo arabo riemerge con forza assoluta nel film di Joseph Cedar, Beaufort (2007). Opera claustrofobica e angosciosa, Beaufort ritorna sulla questione dell’ossessione esistenziale che migliaia di giovani israeliani sono costretti a subire per tre anni (due per le donne) di servizio militare obbligatorio che li porta a vivere una dimensione destabilizzante. In Beaufort, una pattuglia di Tsahal, l’esercito di Israele, è chiamata a tenere una postazione avanzata in territorio libanese, un avamposto strategico ma quasi impossibile da difendere. Tra rischiose operazioni di sminamento, bombardamenti e minacce costanti, i giovani soldati finiscono per “violentare” la propria psiche, fino a perdersi nell’abisso dell’insensatezza, in un impazzimento che paradossalmente possiede dei tratti liberatori. Beaufort è un film terribilmente cupo, labirintico e senza via di uscita. Cedar costruisce un’architettura spaziale che toglie il respiro e colloca la macchina da presa in ambienti chiusi o ristretti che danno allo spettatore una sensazione quasi di soffocamento. In esterno la tensione si accresce, poiché il continuo rischio di rimanere uccisi in un’imboscata, o a causa di una mina, costringe i personaggi principali a esistere in una dimensione compulsiva che inevitabilmente sfocia nel dramma umano e psicologico.

Anche sul versante documentaristico il problema del conflitto mediorientale viene fuori con chiarezza dai lavori di Yoav Shamir, regista puntiglioso e rigoroso che con Checkpoint (2003) e Flipping Out (2008) ha realizzato due opere complementari. Nella prima è delineato, con il tono del “cinéma vérité”, il sistema capillare di posti di blocco che Israele impone ai palestinesi che vivono nei Territori Occupati. È un film ritmico e angosciante, in cui prevale l’uso della macchina a spalla che amplifica la situazione esplosiva e inumana della West Bank. Ai checkpoint la comunicazione interpersonale è abolita; palestinesi e israeliani parlano altre lingue anche dal punto di vista mentale e si confrontano nella gestione innaturale degli spazi fisici e della libertà di movimento. Checkpoint è un documentario aspro che va oltre la semplice denuncia di tipo giornalistico, poiché evidenzia in modo esplicito l’assurdità dei conflitti bellici e la loro influenza nefasta sulle esigenze esistenziali di cittadini che si ritrovano su fronti contrapposti e sempre più separati da un solco di odio e disprezzo reciproco. I soldati israeliani sono cosi ripresi mentre gestiscono situazioni molto tese nell’ambito delle quali il buon senso si smarrisce e la sopraffazione finisce per divenire l’unico metodo di comunicazione praticabile. Queste esperienze terribili, finiscono per provocare danni su entrambi i fronti, anche se ovviamente i palestinesi rappresentano in questa penosa “partita” la parte più debole. Così, se da un lato la popolazione palestinese subisce vessazioni intollerabili, dall’altra intere schiere di giovani israeliani concludono in condizioni psicologiche terribili il loro servizio militare. È per tale motivo che Yoav Shamir ha successivamente diretto la sua attenzione anche alle generazioni post servizio militare nel suo Flipping Out. È noto il fatto che appena effettuato il periodo di leva in Tsahal molti ragazzi scelgano di passare lunghi periodi di permanenza all’estero, in special modo in India. È proprio nel paese asiatico che Shamir “scopre” vere e proprie comunità di ex soldati israeliani. Questi giovani cercano lontano dal paese di ritrovare un’identità, a contatto con la natura e con i bisogni giornalieri, e di cancellare definitivamente l’esperienza bellica che li ha devastati psicologicamente, e in qualche caso fisicamente. Shamir, dunque, illumina una realtà che tutti conoscono in Israele e che in alcune occasioni ha portato a scelte di tipo eremitico da parte di israeliani poco più che ventenni, i quali hanno deciso di isolarsi totalmente nelle montagne indiane e di distaccarsi per sempre dal loro insopportabile passato.

Per quel che riguarda il versante documentaristico bisogna segnalare il lavoro svolto negli ultimi anni da Avi Mograbi. Si tratta di un regista controverso, una sorta di dissidente che però appare molto diverso dal suo collega, ben più radicale, Eyal Sivan. A differenza di Sivan, Mograbi ha infatti scelto di rimanere a vivere a lavorare in Israele con lo spirito della voce critica, del pungolo creativo in grado di esercitare una pressione morale su una società in qualche caso insensibile. Mograbi possiede la consapevolezza dell’uso del linguaggio filmico e un senso critico/ironico cristallino che spesso si spinge fino a una visione esistenziale senza speranza. È un convinto pacifista che utilizza il cinema per esprimere la sua visione esistenziale. È di grande interesse nel cinema di Avi Mograbi la palese non convenzionalità stilistica e registica ed anche il fatto che l’autore riesca a tradurre in immagini in movimento concetti in verità difficilmente addomesticabili dalla macchina da presa. Mograbi è la coscienza dubbiosa di un paese come Israele che ha la capacità di far lavorare senza condizionamenti anche chi, proprio come fa Avi Mograbi, critica fortemente gli aspetti sociali e politici dello Stato. I suoi film sono caratterizzati da soluzioni di montaggio e trovate narrative sorprendenti, la sua impostazione registica non è legata alla raffigurazione del reale quanto piuttosto all’elaborazione di un’idea di fondo che intende esprimere una posizione precisa dell’autore nei riguardi degli eventi che si svolgono nel suo paese. Dunque, oltre a essere un cineasta, Mograbi è specchio della società, del livello culturale di Israele, Stato che sforna a piè sospinto artisti e intellettuali in tutti i campi dell’espressione umana, e soprattutto uomini liberi. Ma andiamo ad analizzare il suo ultimo lavoro: Z32 (2008). La parte contenutistica rispecchia chiaramente la poetica dell’autore, sempre alla ricerca di elementi che possano sostenere le sue tesi pacifiste. In questo film, viene ricostruito attraverso un racconto frammentato un’azione di rappresaglia compiuta dall’esercito israeliano per rispondere a un attentato terroristico palestinese nell’ambito del quale erano morti alcuni soldati di Tashal. L’opera è dolorosa, densa di sensi di colpa, poiché l’avvenimento è rievocato attraverso la sofferenza psicologica di un soldato che partecipò alla rappresaglia, azione che portò alla morte di due poliziotti palestinesi, i quali non erano per nulla collegati all’attentato terroristico. Il protagonista racconta tutto rivolgendosi al regista e alla sua ragazza, anch’essa pacifista e basita di fronte ai ricordi del suo fidanzato. Ebbene, i due giovani al centro della vicenda non appaiono nel film con le loro vere fattezze. Attraverso una sofistica tecnica digitale, Mograbi ha elaborato dei volti fittizi che ha sovrapposto a quelli reali. Questo escamotage non solo ha permesso agli “interpreti” di non esporsi pubblicamente ma ha anche innescato un discorso teorico sulla percezione della realtà e sulla condizione sociale di chi cerca la verità. L’autore ha utilizzato un montaggio alternato che produce un effetto di straniamento e distacco dello spettatore. Il tutto è sostenuto da inserti, nei quali lo stesso regista si esibisce, in compagnia di altri musicisti, al canto, in una specie di musical dissacrante e amaro. Queste tecniche stranianti hanno permesso a Mograbi di non realizzare semplicemente un documentario di denuncia bensì un’opera di riflessione filosofica sulla tragedia del conflitto Medio Orientale e sulle terribili conseguenze che una simile questione può generare. Z32 ha la statura di un testo filmico nel quale l’episodio ricostruito non è mero strumento di comunicazione ideologica; è invece spunto di riflessione sulla condizione degli esseri umani nei territori dove si sviluppano da decenni guerre di cui non si intravede la fine.

Il rapporto con il mondo arabo/palestinese è dunque una delle ossessioni ricorrenti del cinema israeliano contemporaneo. Non potrebbe essere altrimenti, in un Paese i cui intellettuali rappresentano la parte realmente aperta di una società attraversata da paure ataviche (del tutto giustificate, per altro) e sempre concentrata in un esercizio perenne di auto-protezione. In questo contesto, va inquadrato anche il lungometraggio di Eran Riklis intitolato Il giardino di limoni (2008). L’opera narra una storia emblematica. Il Ministro della Difesa di Israele va a vivere in una sontuosa villa situata al confine con la Cisgiordania. Il terreno confinante è di proprietà di una donna palestinese che cura un giardino di limoni, appunto, ereditato dal padre. I servizi di sicurezza israeliani decidono che proprio questo giardino possa rappresentare un pericolo per l’incolumità dell’uomo politico e della sua famiglia, poiché potrebbe consentire a malintenzionati di avvicinarsi senza essere visti. Si deciderà così per l’abbattimento degli alberi. Salma, la donna palestinese proprietaria del limoneto, si batterà in modo civile contro questo provvedimento, ricorrendo fino alla Corte Suprema di Israele. Eran Riklis pone l’accento sulla rigidità del sistema di sicurezza di Israele e sulla superficialità di alcuni individui, i quali non riescono a comprendere il valore simbolico di determinati fattori. Si tratta di un’opera molto severa nei riguardi di certe posizioni politiche israeliane ma è anche un lavoro che tende a evidenziare lo stato di isolamento della “gente normale” (palestinese e/o israeliana che sia). Gli stessi governanti palestinesi, infatti, sono dipinti da Riklis come soggetti ambigui che si disinteressano dei problemi reali dei cittadini. A solidarizzare con Salma, sarà solo, paradossalmente, la moglie del ministro israeliano. Sarà un rapporto che nascerà a distanza e che non potrà mai concretizzarsi ma che deve essere valutato anch’esso nella sua chiave simbolica. Esattamente come in Free Zone di Amos Gitai, l’unica forma di comunicazione tra israeliani e palestinesi sembra essere quella che coinvolge soggetti femminili, evidentemente disponibili naturalmente al dialogo e alla comprensione. Pur prendendo una posizione critica precisa, Riklis non realizza però un lavoro ideologico. La sua è una visione solidale, una visione basata sul concetto di convivenza civile. Compie questo percorso espressivo, attraverso uno stile realistico che però è punteggiato, qua e là, da improvvise virate verso il visionario. Cardine di questa parabola, è l’attrice palestinese Hiam Abbas, interprete che attraverso il suo volto antico riesce a generare un livello di comunicazione in grado di arrivare al cuore dello spettatore.

Ma esiste un film nel recente cinema israeliano in cui si “teorizza” la possibilità del dialogo pacifico tra israeliani e palestinesi? La risposta è sì. Ci riferiamo a Bikur HaTizmoret/La Banda (2007) di Eran Kolirin. Lavoro edificato intorno alla parabola dell’incontro e della conoscenza, La banda è un lungometraggio che al momento della sua uscita ha fatto discutere molto. La storia è quella di una Banda musicale egiziana che approda in uno sperduto villaggio israeliano. Qui li aiuterà la solitaria e disillusa Dina, un’israeliana che gestisce un ristorante perennemente vuoto. Dina si occuperà degli inattesi ospiti egiziani, li accoglierà a suo modo e cercherà di stabilire con loro un rapporto di comunicazione. La scelta alla base del lavoro del regista Eran Kolirin è collegata a elementi molto chiari: l’intreccio di diverse solitudini e l’incontro di soggetti la cui esistenza è stata dura e deprimente, la relazione imprevedibile tra differenti sensibilità: quella di Dina, un’israeliana disillusa e appariscente, e quella piena di dignità dell’egiziano e solitaria di Tawfik. Kolirin ha scelto uno stile rarefatto, sospeso. Il villaggio israeliano dove la Banda egiziana capita per errore è posto in una zona desertica. La cittadina è vuota, abitata da stravaganti individui. Le vie sempre sgombre, i ristoranti deserti. È in questo contesto lunare che le umane sofferenze di Dina e Tewfik si incontrano per un giorno e una notte in uno sfiorarsi vellutato di psicologie in difficoltà. Kolirin ha curato allo spasimo la composizione delle inquadrature e l’alternanza dei primi piani. Grazie a interpreti eccellenti come Sasson Gabai, Ronit Elkabetz e Saleh Bakri e alle sue scelte visuali, il regista ha edificato un piccolo affresco poetico caratterizzato da una solida e rigorosa architettura formale. Ciò ha determinato un potente effetto di spaesamento, una misurata atmosfera surrealista, un flusso del racconto tra lirismo puro e non senso kitsch.

Il movimento artistico/cinematografico israeliano, oltre alla guerra e al rapporto con il mondo arabo, appare comunque rivolto ad analizzare anche gli elementi strutturali e interni della società. I registi israeliani cercano in interpretare comportamenti, usi, costumi e conflitti della società nella quale vivono per comprendere più a fondo l’identità di un popolo del Medio Oriente, quello israeliano appunto, che si fonda sulla sintesi (non sempre riuscita) di innumerevoli tendenze culturali provenienti dalle mille sfaccettature di un ebraismo che già da solo è simbolo di complessità e ricchezza culturale. Prendiamo il caso dello scrittore Etgar Keret, il quale elabora un’idea di Israele tutta incentrata sui concetti di paradosso, straniamento, sogno e dilatazione visionaria/surrealista. Insieme alla compagna di vita Shira Geffen (attiva soprattutto nella scena teatrale), Keret ha realizzato nel 2007 un film che a sorpresa ha conquistato l’ambito premio Camera d’Or al Festival di Cannes (riconoscimento già qualche anno prima assegnato a Or di Keren Yedaya): Meduse. Attraverso il suo sguardo sofisticato, Keret racconta un’altra Israele, un paese diverso da quello proposto dai media internazionali, un luogo bizzarro è denso di un’umanità stralunata. La struttura del racconto è articolata in diverse microstorie che si intrecciano in una Tel Aviv surreale, indecifrabile, quasi impalpabile. Protagoniste delle vicende parallele sono figure femminili che vivono delle strambe avventure. Il clima espressivo costruito da Etgar Keret e Shira Geffen, caratterizzato da uno stile apparentemente algido e da una narrazione rarefatta, genera nello spettatore una sensazione di spaesamento. Tutto è ricondotto alla ricerca inconscia dei personaggi, alle loro devastanti inquietudini, alla loro sofferenza. Tel Aviv era la città perfetta per raccontare questo dolore esistenziale, una città piena di vita, sempre in movimento 24 ore su 24, ma anche grande contenitore di umani disagi che rispecchiano le difficoltà di un intero popolo, stretto da decenni in una morsa di ostilità. Il mare è il cuore simbolico/contenutistico del film, l’emblema della condizione di un popolo circondato che vede proprio nel mare allo stesso tempo la salvezza e l’abisso. Keret e Geffen hanno saputo interpretare con sublime leggerezza, raffinata ironia e intelligente creatività questo sentimento nei confronti del mare, concentrandosi su ritratti femminili di notevole intensità, figure sospese in una dimensione esistenziale che insegue una desiderata serenità interiore che però non riesce mai a concretizzarsi.

Altrettanto onirica e spiazzante è la Tel Aviv, ricomposta espressivamente da Danny Lerner nel suo thriller psicologico: Yamim Kfuim/Frozen Days (2006). La metropoli israeliana, fotografata in un bianco e nero che amplifica una sensazione di mistero, diviene in questo caso teatro di una vicenda dai tratti enigmatici. Una giovane donna sopravvive abitando in case vuote che devono essere affittate. Ogni notte è una nuova casa, in una fuga mentale dalla realtà, all’angosciosa ricerca di una condizione di felicità/serenità che sembra impossibile da raggiungere. La città appare luogo popolato da ectoplasmi, da individui che vivono senza certezze e punti di riferimento. I personaggi si muovono in ambienti privi di coordinate spazio-temporali, si sfiorano e si incrociano nella dimensione imperscrutabile del sogno. Tutti, e in primo luogo la protagonista, si portano dietro il fardello di un inconscio che rivela in conclusione lo strascico di una tragedia, del dolore e della violenza quotidiana.

La capitale artistica e commerciale di Israele è anche al centro dell’ultimo film di Eytan Fox: HaBuah/The Bubble (2007). Eytan Fox è uno dei cineasti israeliani più noti in Italia, grazie a opere come Yossi veJager/Yossi e Yagger e Lalechet al haMaim/Camminando sull’acqua, prestigioso esponente del cosiddetto cinema gay israeliano, il cui capo scuola è senza dubbio Amos Guttman. I tre protagonisti del film vivono a Shenkin Street, il cuore alternativo e di sinistra della metropoli israeliana. In questo caso, uno dei tre finisce per intrecciare casualmente un rapporto amoroso con un ragazzo palestinese. Si tratta di una storia di amore impossibile, in una città in cui uno dei due vive da clandestino. Formalmente l’opera non appare discutibile, mentre a livello contenutistico Fox ha sommato troppi elementi, creando purtroppo un caos di messaggi. E alla fine, anche in maniera a questo punto prevedibile, spunta fuori il tema del terrorismo. Questa stratificazione di argomenti non permette oltretutto di gettare uno sguardo sulla vita convulsa e divertente di quella zona di Tel Aviv. In sostanza con The Bubble, Fox ha avuto una severa battuta di arresto che ha per certi versi frenato il fortunato percorso della sua carriera. Nel recente cinema israeliano non è comunque solo Tel Aviv a rappresentare un palcoscenico perfetto per raccontare storie e per descrivere sentimenti. Negli ultimi anni (ma ricordiamo già nel 1967 l’intenso film di Uri Zohar Shlosha Yamim veYeled/Three Days and a Child) è emersa anche un’immagine anticonvenzionale di Gerusalemme, generalmente considerata città della religione ma che invece pulsa di una vita laica, all’interno della quale il malessere sociale, l’emarginazione e la delinquenza trovano il loro spazio come in qualsiasi altra città del mondo contemporaneo. Il luogo sacro per le tre religioni monoteistiche diviene così girone infernale nel quale un’adolescente di strada sfruttata da una banda di criminali è alla disperata ricerca del proprio equilibrio esistenziale. Stiamo parlando di Qualcuno con cui correre (2006), film tratto da un romanzo di David Grossman. Oded Davidoff, il regista del film (classe 1967) è al suo secondo lungometraggio. Il film possiede una mescolanza di fattori espressivi nella quale emerge soprattutto la tendenza di Davidoff ad essere, purtroppo, eccessivamente tecnicistico e a utilizzare continue contraddizioni visuali. L’uso frequente e ingiustificato di obiettivi grandangolari che deformano la realtà raffigurata, la presenza ingiustificata di angolazioni wellesiane, l’utilizzazione di accelerazioni e della macchina a mano, il parossistico intreccio narrativo, l’improvvisa e sconnessa apparizione di sequenze di stampo realistico e/o documentaristico. Si ha l’impressione che l’autore si sia lasciato prendere la mano da virtuosismi e che abbia puntato tutto su una complessità linguistica che ha finito per generare solo confusione. Così, il fattore più importante dell’opera, ovvero la raffigurazione di una Gerusalemme nuova rispetto agli stereotipi che circolano sui mass-media, e dunque vera, fatta di giovani insoddisfatti e anche di volgari malavitosi, finisce per essere risucchiata all’interno di un vortice formale controproducente. Ben più compatto, chiaro ed essenziale è invece il cinema di Shlomi e Ronit Elkabetz, quest’ultima una delle maggiori attrici cinematografiche in attività in Israele. I due fratelli/cineasti sono emersi improvvisamente in occasione della 19° Settimana Internazionale della Critica (Mostra del Cinema di Venezia 2004). All’epoca fu un vero trionfo. VeLakahta le haIsha/To take a Wife, la loro opera prima ebbe infatti oltre dieci minuti di applausi nell’allora PalaGalileo e il Premio GAN del pubblico. Colpì la forza drammaturgica delle scene e la compostezza assoluta della regia, mai compiaciuta e virtuosistica ma sempre commisurata al tono del racconto; e poi anche l’arcaica forza del volto di Ronit, attrice di autentico spessore in grado di sviscerare con abilità l’intero panorama dei sentimenti umani. Al Festival di Cannes 2008, i due fratelli di Beersheva hanno presentato la loro ultima fatica registica nell’ambito de La Semaine de la critique. Shiva, questo il titolo del lungometraggio in questione, rappresenta un ulteriore passo in avanti nell’ambito della poetica di questi due autori che continuano a puntare con decisione su un cinema di alta qualità, a livello contenutistico e formale/visuale. La vicenda è ambientata in una grande casa israeliana, all’interno della quale per sette giorni una numerosa famiglia si raccoglie per effettuare la “shiva”, appunto: periodo di lutto durante il quale i familiari di un defunto mangiano, pregano, vivono insieme. Si sta seduti per terra e si passano giornate a ricordare il parente morto, nel tentativo di tenere vivo il suo ricordo e per rafforzare in loro l’affetto nei confronti della persona amata. Gli aspetti interessanti di questo lavoro sono essenzialmente due: la solida impostazione stilistica e la direzione degli attori. La prima è incentrata su un’architettura formale basata sulla staticità della macchina da presa e, di conseguenza, delle inquadrature. È in tal senso privilegiato il montaggio interno all’immagine. Rarissimi (forse solo tre) i movimenti di macchina. Tra questi uno è addirittura impercettibile ed è dedicato alla figura archetipica della madre. La direzione degli attori è sostanzialmente legata a una concezione di potente immedesimazione dei protagonisti, i quali sono spinti dai due registi a vivere con vigore interpretativo ogni passaggio narrativo e a muoversi in maniera geometrica all’interno dell’inquadratura. Questi due fattori forniscono a Shiva una solidità e una chiarezza comunicativa non indifferenti. Il cast è composto da attori di primissimo livello che riescono a reggere perfettamente i ruoli e a stabilire una rete espressiva che non presenta alcuna falla. Tra gli interpreti, oltre alla stessa Ronit Elkabetz, anche Yael Abecassis (Kadosh, Alila di Amos Gitai), Hana Laslo (Alila, Free Zone di Amos Gitai), Moshe Ivgi (Munich di Steven Spielberg, Metallic Blues di Danny Verete), Simon Abkarian (To take a Wife di Shlomi e Ronit Elkabetz).

Nell’ambito del percorso critico all’interno del cinema israeliano contemporaneo non potevamo evitare di affrontare le opere più recenti di quello che a tutti gli effetti può essere considerato il punto di riferimento delle giovani generazioni di cineasti: Amos Gitai. E faremo ciò puntando la nostra attenzione su due opere controverse come Free Zone (2005) e Disengagement (2007). Free Zone è un lungometraggio in grado di veicolare dei significanti che vanno al di là del senso superficiale della vicenda. Le tre protagoniste sono portatrici di altrettante condizioni umane che scaturiscono dalla storia dei loro popoli. Hanna è un’israeliana forte e apparentemente rude ma in verità dolce come la polpa di un fico d’india, vogliosa di comunicare. Dietro questo personaggio si percepisce tutta la sofferenza del suo mondo: il fantasma della Shoah, il confronto giornaliero con il pericolo, con la morte che può arrivare, improvvisa e assurda, con una bomba al mercato o con un razzo Qassam. Rebecca ha un padre israeliano, ebreo, e una madre non ebrea. La sua identità è però sempre più nitida nella sua mente. Ha deciso di vivere a Gerusalemme, di voler essere israeliana e di provare sulla propria carne i suoi tormenti esistenziali. Leila è palestinese e vive in Giordania. È bella, con un volto antico e l’atteggiamento fiero. Il suo spirito è accogliente e rispettoso, il suo comportamento riservato ma fermo. Intorno a queste tre figure, interpretate in maniera magistrale da Hana Laszlo (Hanna), Natalie Portman (Rebecca), Hiam Abbas (Leila), Amos Gitai ha sviluppato una storia di ricerca interiore e di scoperta dell’altro, un poema sulla condizione degli esseri umani in un luogo dove si intrecciano vicende storico-politiche molto contorte. Free Zone è un road movie psicologico, una lunga riflessione visuale dai tratti onirici sul Medio Oriente. Il fluire del racconto è affidato a struggenti piani-sequenza che spesso si soffermano su primi piani delle protagoniste. A volte l’obiettivo è puntato sulla strada, sul deserto, sul nulla che avvolge il viaggio delle protagoniste. Le sovrimpressioni forniscono a diverse sequenze una stratificata complessità narrativa e visuale. Il ritmo del racconto si distende senza sussulti, si adegua a un paesaggio dove il senso visivo di vacuità che si percepisce è il rovescio della medaglia della densità di fattori esistenziali, etnici, politici, bellici che caratterizza quelle terre. In questo contesto, i tre personaggi principali sembreranno ad un certo punto, grazie alle emozioni della musica, trovare una sorta di sintesi umana, di possibile contatto delle loro esperienze. Poi, tornerà la confusione, l’assurdità del tutto. Ebbene, se si cerca nel cinema di Gitai il realismo puro, si può finire in una sorta di vicolo cieco che blocca ogni possibilità di avvicinamento a un tipo di espressione che invece trova dimensione poetica il suo punto di forza. Anche Disengagement (2007), il film successivo, risponde pienamente a queste caratteristiche. La vicenda è costellata da episodi che sviluppano un loro significato nei loro risvolti simbolici. La sequenza di apertura è fin troppo limpida: un uomo israeliano e una donna palestinese si incontrano su un treno. I due parlano dei loro diversi passaporti, e delle loro origini. Poi, si baciano. È un prologo dalle chiare implicazioni simboliche, che apre un film basato sulla dissacrazione costante dell’identità, delle radici e del concetto di nazionalismo. I protagonisti sono tutti sradicati, in cerca non dell’appartenenza a un paese, ma degli affetti più cari, quelli che possono illuminare un cammino che appare sempre più buio. Disengagement è suddiviso in due ampie sezioni: la prima si svolge ad Avignone, città francese nella quale i due fratellastri si incontrano dopo molto tempo e dove riprendono ad amarsi profondamente. La seconda nella striscia di Gaza, proprio nel periodo (agosto 2005) del cosiddetto disimpegno, quando lo sgombero dei coloni costrinse migliaia di poliziotti e soldati israeliani a mettere in pratica ciò che il governo israeliano aveva deciso: il ritiro unilaterale, anche con l’uso della forza. Gitai manifesta con determinazione il suo desiderio di composizione di un conflitto che sembra non voler terminare mai. Mentre la parte ambientata in Francia è costruita con una certa compattezza narrativa, quella che si svolge a Gaza sembra più tesa soprattutto a mettere a fuoco il particolare stato di spaesamento vissuto dagli israeliani durante i giorni dello sgombero. Juliette Binoche appare realmente straniata e “fuori luogo”, personificazione di una sofferenza interiore che non potrà mai essere placata. Disengagement è un film che ha il pregio di evidenziare la complessità caleidoscopica del popolo israeliano, visto sempre all’estero come un corpo compatto ma in realtà denso di innumerevoli sfumature. Così come quello di Gitai è uno sguardo lucido e problematico, altrettanto corrosivo è quello di autori molto più giovani come Dalia Hager/Vidi Bilou e David Volach, registi che rispettivamente hanno realizzato Karov laBait/Close to home(2006) e Hufshat kaitz/My Father, My Lord (2007). Si tratta di due opere che affrontano questioni chiave all’interno della società israeliana. La prima è incentrata sull’esperienza del servizio militare, questa volta però filtrata attraverso lo sguardo femminile, poiché le protagoniste sono proprio delle giovani donne israeliane chiamate a svolgere il servizio di leva. Le ragazze sono costrette a confrontarsi con un universo chiuso che non rappresenta la loro interiorità. La seconda, invece, affronta un argomento molto spinoso in Israele: il conflitto tra visione religiosa ultraortodossa del mondo ed espressione libera e secolarizzata dei sentimenti umani. Un padre ultraortodosso esorcizza il dolore per la morte tragica del giovane figlio gettandosi a capofitto in una vita religiosa che non prevede l’elaborazione condivisa del lutto. Sono due lungometraggi diversi, più tradizionale il primo, legato a un’estetica vicina a quella di Sokurov il secondo, ma entrambi intenzionati a raccontare dei fattori particolari della struttura sociale di Israele.

Proseguendo nell’analisi delle relazioni tra cinema e società dobbiamo ritornare al genere documentario con Yaldei haShemesh/Children of the Sun (2007), opera di Ran Tal. Si tratta di un lavoro sulla percezione collettiva e individuale non solo di emozioni condivisibili ma anche di un vero proprio sogno che hanno portato avanti per decenni moltissime persone. Più che un sogno, forse è stata un’aspirazione sublime all’uguaglianza, alla parità tra esseri umani, alla condivisone fraterna di un progetto esistenziale ed anche, perché no, politico. Quella dei kibbutzim è stata una delle realtà più interessanti dello Stato di Israele; è stata probabilmente l’idea più alta dell’applicazione di un socialismo sano e possibile. Con il suo film, Ran Tal ha cercato di ripercorrere questa storia, oggi in fase di mutazione quasi totale, attraverso le vicende di quelli che nel terzo millennio sono divenuti israeliani adulti ma che nel secolo scorso hanno vissuto la propria fase di crescita proprio dentro un kibbutz. Tal elabora visivamente la memoria di soggetti che hanno sperimentato una vita collettivista per certi versi estrema, poiché si spingeva fino alla separazione educativa tra genitori e figli. Questi individui rivivono questa anomale e, per certi versi, dura avventura in una sorta di testa-coda della percezione di sé e del mondo che hanno contribuito a costruire. Children of the Sun sembra una sorta di seduta psicanalitica basata più che sull’uso terapeutico dell’immagine (il materiale di repertorio utilizzato per il montaggio definitivo), sulla possente e poetica forza evocativa del suono, fattore che specifica il senso stesso del film, spostando il fulcro dell’opera in un abisso di emozioni e ricordi, in diversi casi anche angoscianti. Proprio l’uso del suono e della voce fuori campo sono i due elementi centrali dell’architettura espressiva. L’articolazione anticonvenzionale degli effetti sonori, questi ultimi spesso sovrapposti in modo artificiale alle scene proposte, e le parole dei protagonisti hanno costituito un impianto legato al concetto di memoria. Peccato solo che alla fine l’autore abbia scelto di far vedere i volti di tutti i narratori come sono oggi. Questa improvvisa svolta verso la realtà odierna ha azzerato improvvisamente la dimensione del sogno e della memoria determinando nel racconto un filo di amarezza. Altro documentario che affronta le questioni più dolorose e intime della società israeliana è senza dubbio Hata’aluma bamehola Hayeruka/The Green Dumpster Mystery (2008). L’autore è Tal Haim Yoffe, un giovane regista che sembra aver compreso a pieno il senso profondo del valore evocativo e comunicativo delle immagini, fotografiche e cinematografiche. Il suo film è allo stesso tempo un saggio sulla memoria visiva delle esistenze umane e un’indagine lucida, ma allo stesso tempo densa di un’emotività contenuta, sul destino di un intero popolo, e sulle sofferenze che l’hanno caratterizzano. Lo stile adottato da Tal Haim Yoffe è appunto analitico, quasi scientifico. L’autore si trasforma in detective, cercando di delineare le vite di persone sconosciute a causa della curiosità del suo sguardo. Un giorno, mentre percorre in motorino una strada del quartiere Florentine di Tel Aviv, Tal si accorge che dentro un cassonetto dell’immondizia c’è una scatola di cartone piena di vecchie fotografie. Chi le ha buttate? Perché proprio in quella strada? E chi sono le persone ritratte? L’indagine inizia dalla figura più emblematica: Shoah Wolkowicz. Shoah? Che nome è mai? Questa è la domanda da cui parte il lavoro di ricostruzione di Tal Haim Yoffe. Inizia così un lungo e difficile percorso del cineasta, il quale mettendo insieme molti indizi riesce a delineare una vicenda toccante, per non dire struggente. Shoah è morto a vent’anni, in combattimento. Era il 1973. È la guerra del Kippur. Shoah è un giovane pieno di speranze, sogni, prospettive che si vaporizzano in battaglia. Fine di tutto. La sua giovanissima vita per la difesa del Paese. Ma Tal Haim Yoffe non si accontenta della storia di Shoah (non così inusuale per Israele) e continua la sua indagine serrata sulla famiglia Wolkowicz. Accostando i vari tasselli, l’autore scoprirà una nuova tragedia che incombe su tutta la famiglia: la catastrofe della Shoah, la perdita di persone care, il dolore indicibile. The Green Dumpster Mystery è un piccolo sommesso capolavoro. L’azione registica di Yoffe non è mai retorica, ed è sempre volontariamente sottotono. Attraverso questo meccanismo effettua un intenso viaggio della memoria, usufruendo della forza evocative delle immagini fotografiche. Questi elementi sono autentici “luoghi” non solo di una memoria individuale e familiare, ma anche di una memoria collettiva molto complessa e dolorosa. Yoffe dimostra come attraverso immagini fotografiche apparentemente anonime, prive di estetica, scattate senza velleità artistiche si possa raccontare il destino degli uomini, le loro sofferenze, le asprezze di una vita piena di speranze ma anche di strazi. L’immagine dunque evoca, riporta alla luce, conserva, rendere poetica la vita degli uomini e consente a chiunque di entrare in contatto con le angosce e le fragilità di quelli che sono per noi sconosciuti. Tal Haim Yoffe sembra lavorare su questo concetto con la dovuta sensibilità, e soprattutto colloca il suo “lavorio teorico/pratico” sull’immagine fotografica e in movimento all’interno di un apparato creativo rigoroso, onesto e rispettoso della memoria.

La nostra panoramica sul cinema israeliano contemporaneo non poteva che concludersi prendendo in esame il territorio di confine, estremamente fertile, posto tra cinema e arte contemporanea. In Israele, tale area creativa ha dato frutti decisamente rilevanti e tra questi vogliamo evidenziare quelli di Ran Slavin e Maya Zack. Ran Slavin è musicista e videoartista. Percorre una strada espressiva di grande modernità e di profonda complessità. Consapevole del valore del linguaggio musicale e perfettamente a suo agio nel mondo dell’immagine, Slavin ha creato un proprio stile espressivo in linea con le tendenze del cinema sperimentale di questo primo decennio di secolo. Nato nel 1967 a Gerusalemme e diplomato all’Accademia Betzalel, Ran Slavin vive e lavora attualmente a Tel Aviv. Il suo percorso umano l’ha portato ad attraversare tre continenti e a fare esperienze in città luoghi come Singapore, San Francisco e Londra. L’autore israeliano ha esposto a Tel Aviv, Haifa, Milano, Parigi, Kassel, Berlino, Linz, Madrid, Cracovia, Amsterdam, New York. La sua ultima opera è un film sperimentale in continua evoluzione e costante trasformazione. Stiamo parlando di Insomniac City (2006), opera visuale di raffinata elaborazione nell’ambito della quale Slavin realizza un proprio percorso onirico all’interno di un paesaggio urbano modernissimo, quasi astratto. Il film è contraddistinto da inquietanti atmosfere noir, il cui fattore contenutistico è però indecifrabile, senza apparente direzione. Il grottesco, l’assurdo e l’eros sono dietro l’angolo. Sulle orme di David Lynch, Slavin edifica una struttura narrativa ermetica che lascia spazio a una raffigurazione della città come luogo meticcio e tecnologico, dove l’impossibile diviene possibile. Insomniac City è una sorta di incubo, un sogno ibrido nel quale si sommano immagini a immagini. Tel Aviv, i suoi grattacieli, le sue “autostrade metropolitane”, divengono spazi di una realtà mentale che produce scie di verità ed echi di follia. I personaggi sono legati da elementi per lo più incomprensibili, mentre il racconto non precede in modo regolare. Sussulti, flash psicologici, visioni, dialoghi deliranti, luoghi senza tempo, ambienti sospesi e silenzi, città che si sovrappongono in un gioco in cui il mondo perde le sue coordinate spazio-temporali. Una sensazione di angoscia raggelante viene percepita dal fruitore, che rimane ipnotizzato dagli sguardi stranianti su una Tel Aviv notturna, i cui palazzi ultratecnologici sembrano avere una loro misteriosa dimensione esistenziale. Le forme architettoniche apparentemente immobili, nascondono al loro interno dei semi di dinamismo e si intrecciano a improvvise apparizioni di Shanghai. Insomniac City è un’opera senza fine, uno spazio aperto che accoglie lo spettatore e lo lascia libero di volare tra inquadrature, effetti visivi e suoni per costruire il proprio viaggio onirico.

Per quel che riguarda Maya Zack, il nostro pensiero non può che correre ad autori come Matthew Barney e Peter Greenaway, artisti/registi/autori di opere fruibili indifferentemente in ambito cinematografico e/o artistico, artefici di film “altri”, fuori da ogni schema e codice precostituito. Si tratta di un’artista che possiede una poetica già fortemente riconoscibile, pur essendo inequivocabili le influenze dei due autori sopra citati. Il lavoro di Maya Zack che rappresenta maggiormente lo spirito della sua ricerca è intitolato Mother Economy(2008) e vuole essere un esperimento raffinato che percorre il confine sottile tra cinema sperimentale e opera video/concettuale. Se nel precedente Meme 1, Maya Zack si ricollega (non sappiamo quanto volontariamente) all’estetica di Matthew Barney, in Mother Economy l’artista israeliana conquista una propria identità che affonda le sue radici in un’impostazione visuale chiaramente cinematografica. La sceneggiatura, scritta insieme a Ytzchak Roth, è basata sull’organizzazione visiva delle azioni di una donna-casalinga, all’interno di una casa ebraica probabilmente durante l’avvento del nazismo. Il tessuto concettuale del breve film (meno di 20 minuti) è solido ed è costruito sulla consequenzialità di alcuni gesti molto precisi, quasi matematici, effettuati dal personaggio centrale. La donna, in uno stato di “trance”, si muove, organizza, effettua calcoli, riflette, cerca, elabora. Il tutto in una dimensione temporale sospesa. Ciò provoca una sensazione di straniamento in chi guarda, ma anche la percezione di un’atroce realtà storica che sta per abbattersi sulla pura perfezione di piccoli precisi fatti quotidiani che rappresentano un mondo di tradizioni, abitudini, ruoli. Maya Zack è artista molto sensibile, proprio perché non perde mai di vista il senso della sua opera. E per far ciò si affida in maniera netta al linguaggio audiovisivo. La sua cifra stilistica è sostanzialmente geometrica e ha a che fare con il sezionamento dello spazio scenico. La macchina da presa diviene una sorta di bisturi del campo visibile, si muove spesso attraverso carrellate orizzontali e si concentra su dettagli che fanno emergere brevi sintetiche azioni della protagonista. In Mother Economy, l’inquadratura ricorrente è quella in cui la m.d.p. è posta a piombo/verticale e inquadra dall’alto, attraverso movimenti fluidi e lenti, l’azione. Non sembra un’inquadratura casuale questa, poiché risulta centrale nell’architettura registica dell’opera. È anzi un’inquadratura inquietante che esalta la solitudine del personaggio centrale, pur nella realtà protettiva della casa, solitudine dilatata da una sorta di algida e distaccata istanza narrante che guarda tutto dall’alto e che forse allude non solo al distacco tra universo umano e universo metafisico, ma probabilmente evidenzia la sostanziale drammatica assenza di una componente ultraterrena nell’ambito del concetto di esistenza.


di Maurizio G. De Bonis
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