Il cinema di Francesco Rosi, o dell’esemplarità del linguaggio cinematografico per la memoria collettiva

Un breve saggio critico di Carmen Albergo, dedicato al linguaggio cinematografico nel cinema di Francesco Rosi, a cent'anni dalla nascita.

Francesco Rosi

A cento anni dalla nascita del regista Francesco Rosi (1922-2015) il mondo del cinema, e non solo, celebra la ricorrenza con eventi mirati, tra i più importanti: le iniziative nella sua città natale, Napoli, promosse dalla Regione Campania con il Museo Nazionale del Cinema di Torino, che a sua volta inaugura e ospita, sino ad aprile 2023, la mostra Le mani sulla verità. Cento anni di Francesco Rosi, curata dalla figlia del regista, Carolina Rosi.

D’obbligo anche l’omaggio della programmazione Rai, che dedica al cineasta, oltre a servizi d’approfondimento e d’archivio, una maratona delle versioni restaurate dei suoi film, sino alla prima visione del documentario Citizen Rosi, presentato a Venezia nel 2019, diretto da Didi Gnocchi e Carolina Rosi: molto più di un tributo alla carriera di intellettuale impegnato, corroborato dalle voci di testimoni di spicco, attraversa in ordine storiografico, anziché cronologico, i titoli Lucky Luciano, Salvatore Giuliano, Cristo si è fermato a Eboli, Le mani sulla città, Il caso Mattei, Tre fratelli, per restituire una vera e propria analisi di cinquant’anni di storia italiana, filtrata dalla lungimirante indagine critica di un autore “cittadino e non suddito”, come Rosi stesso si definì nel 2012 nel ricevere il Leone d’oro alla carriera.

Dinanzi all’innegabile, intramontabile attualità del corpus filmografico rosiano, il centenario non può che sancire ulteriormente la sua eredità autoriale, quale concreto e significativo esempio di memoria storica e collettiva “esemplare”, così come teorizzata dal filosofo umanista Tzvetan Todorov. Il teorico suggerisce che una memoria condivisa di tal portata possa realizzarsi solo attraverso la configurazione di un “racconto esemplare”, individuando il più consono e ideale strumento di trasmissione nel medium cinematografico, in forza della sua stessa complessa ontologia di riprovisione fedele ed emotiva del reale. L’esemplarità dei risultati offerti dall’opera rosiana consente infatti di cogliere, in primis, le potenzialità e le determinazioni insite nel linguaggio cinematografico, qualora questo si ponga consapevolmente come strumento e documento di studio nel settore disciplinare storiografico.

Rosi rappresenta l’avanguardia di un “cinema di Storia” che, avendo preliminarmente ben compreso e veicolato il concetto di “storicità”, così come ridefinita dagli stessi storici del cinema, ovvero l’evocazione del passato attraverso l’espressione visiva del rapporto tra uomo e contesto, ha inscritto il proprio genio e le proprie opere nel solco di studi della sociologia del cinema, che pone la settima arte direttamente al centro della questione delle fonti documentarie e della fenomenologia dei processi di costruzione di memoria e identità sociale. Francesco Rosi, infatti, nel corso della sua carriera non ha mai smesso di affinare il proprio metodo di lavoro, votato all’ideale di autenticità e profondità della composizione dell’immagine, tanto sul piano estetico, quanto su quello contenutistico, al solo scopo di promuovere, ristrutturandolo dalle fondamenta, un dibattito d’opinione più critico, responsabile ed umano tra gli spettatori, prima di tutto cittadini.

Indagando il contesto sociopolitico contemporaneo, nella sua estensione logica, extratemporale ed equiparabile tra passato e presente, anziché per mera contiguità di circostanze, come auspicato da Todorov, Rosi piega il mezzo cinematografico al suo sagace realismo, dimostrando la possibilità di ragionare lucidamente sulla Storia rivolgendosi al grande pubblico, e non solo conseguendo con i suoi successi la memorabilità della lezione intellettuale proposta sul dato storico contingente, bensì ridiscutendo i processi formali ed ufficiali di stabilizzazione della memoria collettiva stessa:

«si ritiene che il realismo sia una scelta di stile: io penso che invece corrisponda a un qualcosa di più interiore, come l’esigenza di vedere con occhi lucidi e razionali una certa verità delle cose. Questo sacrifica la libertà del processo creativo? Io non sono d’accordo: io penso che il punto nodale in questi casi, per questo tipo di cinema, sia di riuscire a far spettacolo senza intervenire con l’immaginazione laddove i fatti della storia sono già di per sé pienissimi di stimoli all’immaginazione del pubblico» (Cfr. A.Mori, Rosi, la politica come passione, «La Repubblica», 1992).

A questo proposito, risulta davvero imprescindibile il riferimento forse all’unica trasposizione cinematografica nota al grande pubblico della produzione letteraria e spirituale dello scrittore Primo Levi, La tregua, realizzata da Rosi nel 1997. L’eccezionalità morale di Primo Levi si anima nell’immaginazione rosiana, attraverso l’invenzione diegetica della figura di un ufficiale nazista che chiede perdono, che la narrativa leviana non cita ma sottende, sfidando con la propria mitopoiesi ciò che ancora oggi per antonomasia si sacralizza “Memoria”.

La cinematografia rosiana si erge, dunque, tra i migliori e rari casi di risoluzione di una delle irriducibilità conseguenti alla necessità di costituire l’artificio artistico, come ponte emozionale privilegiato di adeguamento tra la memoria storica scientifica (rimessa all’arbitrio di selezione significante degli specialisti) e la sensibilità diffusa della percezione e coscienza di sé della comunità sociale stessa, sempre più satura, disincantata e assuefatta all’incessante e accelerato flusso di consumo informazionale, amministrato dai vecchi e nuovi media e oggi più che mai contraffatto dal giogo dei social. Ripercorrendo i basilari risultati degli studi di morfologia sociale, incentrati sulle dinamiche della memoria collettiva, si giunge ad asserire che i “quadri”, immagini di memoria, autoprodotte dalla stratificazione della collettività sociale, ai fini della riorganizzazione fisiologica della propria identità in continuo divenire, si istituiscono nella memoria condivisa dagli stessi individui e gruppi come principali fonti e forze motrici del ricordo solo qualora, soprattutto nei casi di commemorazione di circostanze remote e non vissute personalmente, queste cornici esterne di nozioni storiche venissero corroborate da impressioni e riflessioni sviluppate in prima persona.

Assodato, dunque, per citare Maurice Halbwachs e il suo La memoria collettiva del 1950, che «non è sulla storia imparata, ma sulla storia in qualche modo vissuta, che si basa la nostra memoria», a Rosi si deve il merito inestimabile di aver conferito, attraverso la propria creatività e metodologia critica, autenticità a ricordi artificiali condivisibili da tutti. L’originalità insuperata, l’innovazione e l’audacia del genio registico rosiano consistono nella compiutezza e complementarità tra la forma sovversiva del genere di inchiesta (la commistione di documentazione oggettiva ed interpretazione intellettuale) e la sua più distintiva chiave metanarrativa, quale è “il delitto come indizio rivelatore di una società” (nella definizione data da Michel Ciment in Dossier Rosi), svincolata dalle coordinate spazio-temporali.

Il disvelamento dei moventi e delle occasioni di morte all’interno del substrato sociale, desunto dalla storia e dalla cronaca oppure a partire da una ispirazione letteraria (da Salvatore Giulianoa Dimenticare Palermo, passando per Il momento della verità, Cadaveri eccellenti e Cronaca di una morte annunciata, per citare solo alcuni) mantenendo sempre la forma del racconto come miglior veicolo di lucida riflessione, si estende per Rosi in uno spettro interpretativo che abbraccia tutta la complessità dell’esistenza umana, dalle comunità semimarginali, sino agli alti vertici della vita sociopolitica e delle sue forme di regime, essendo Rosi convinto che proprio il più grande shock scateni il riemergere del delinquere sociale, tanto dei singoli individui, quanto delle istituzioni in cui essi si riconoscono, reati e reazioni irrisolti e camuffati, soggiacenti alle ferite più superficiali e malcurate.

La lezione investigativa rosiana di risalire all’imputabilità e veridicità dei “delitti” come morti innaturali, eterodirette ed eteroindotte, lasciate al clamore mediatico ed infine trascurate, come sintomi manifesti dell’inespressa angoscia e antinomia sociale, risulta oggi, purtroppo, ancora tristemente attuale, lampante ed ineludibile. Ancor più amaramente Rosi troverebbe oggi numerosi e nuovi stimoli tematici, già sedimentati nella confusione e nell’irruenza dell’opinione pubblica: il fenomeno omicida dilagante sotto la definizione “femminicidio”, i suicidi degli imprenditori strozzati dai debiti, gli interessi dei finanziamenti pubblici, l’usura criminale, le “morti bianche” per l’inadeguatezza degli impianti di sicurezza, la raggelante tragicità di dover rivendicare un lavoro, quello in fabbrica, che è concausa delle devastanti conseguenze sanitarie dell’inquinamento ambientale e non da ultimo il genocidio dei popoli migranti, scudo umano delle transazioni politiche. «Non fiori ma solidarietà per gli immigrati», recitava il necrologio della famiglia Rosi sui giornali nel giorno della scomparsa del regista.

Dinanzi alla sensibilità, umana e intellettuale, che Francesco Rosi ancora rappresenta nel panorama italiano e internazionale, non solo cinematografico, l’eredità della sua opera supera lo statuto di veicolo di memoria storica, per assurgere a quello ulteriore di oggetto di memoria stessa, per riscoprire dalla lettura del passato reso attraverso le sue opere non solo un faro, più che un osservatorio sulla memoria nazionale, ma anche strumenti di interpretazione per vivere la memoria come critica della Storia medesima.


di Carmen Albergo
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