Cinema egiziano: tra impegno civile e influenza hollywoodiana

Cinema Egiziano

Cinema EgizianoPubblichiamo un estratto dell’articolo sul cinema egiziano apparso sul numero 26 (ott. – dic. 2004) di CineCritica

Un balcone spoglio ma dignitoso collocato sulla facciata di un palazzo di un quartiere popolare.
Siamo a Il Cairo nei primissimi anni sessanta, in un Egitto caratterizzato dalla politica nasseriana. Il paese è lanciato nel sogno “impossibile” del panarabismo di matrice socialista e nell’avventura a dir poco fallimentare della Repubblica Araba Unita, soggetto statuale (formato da Egitto e Siria) che intendeva suggerire l’avvio di un processo che avrebbe dovuto portare all’unificazione dell’intera costellazione araba, dal Marocco all’Iraq. Un balcone nel cuore di una metropoli che oggi conta ben sedici milioni di abitanti, un luogo ideale per l’osservazione della realtà, parte integrante di una grande casa, animata e caotica, nella quale una famiglia normale conduce la propria esistenza in maniera nevroticamente automatica e convulsa.
Na’eem è un bambino di sei anni curioso nei confronti della vita e pieno di dubbi. Il suo è uno sguardo candido, una sorta di periscopio sulla realtà in continuo movimento che, attraverso le vicissitudini della propria famiglia, cerca di mettere a fuoco il percorso, le contraddizioni del presente e il futuro di un intero popolo.

Cinema EgizianoBaheb el sima (I Love Cinema – 2004) è un film che rivela al pubblico e alla critica non solo un brano di storia civile e politica del paese nordafricano ma anche la dimensione di una piccola borghesia che cercava negli anni sessanta una collocazione stabile nel concetto di progresso e sviluppo sociale di matrice, come già detto, nasseriana. Il regista Osama Fawzysitua la vicenda in un ambiente decisamente particolare. Quello di Na’eem, infatti, è un nucleo familiare cristiano che rappresenta una fascia fortemente minoritaria della struttura del paese. Il padre, Ady, è un rigoroso e religiosissimo insegnante e assistente sociale che vive la sua esistenza solo in funzione del suo credo religioso. E’ un uomo in fin dei conti buono ma tendenzialmente reazionario e ottusamente integralista. Il suo è un fondamentalismo buonista, sessuofobico e ossessionato da una deriva perbenistica che finisce per influire su ogni dettaglio della vita quotidiana. Sua moglie, Ne’mat, vive invece una condizione di scissione: direttrice scolastica di religione protestante, filogovernativa e severissima, ben integrata nel regime da una parte, pittrice insoddisfatta e frustrata dall’altra. Il suo carattere sarebbe vitale, sensuale, creativo, brillante ma le fobie confessionali del marito le impediscono di sviluppare un discorso interiore che possa dare senso all’esistenza giornaliera. Il ruolo di madre è comunque vissuto da questa donna prosperosa e ansiosa in maniera totale, quasi come un rifugio prezioso utile per sfuggire alla tristezza di una vita senza scossoni. In questa situazione, cresce Na’eem, bambino fragile e spesso malato che coltiva in maniera inconscia un amore incondizionato e quasi parossistico per il cinema, amore avversato con forza dal padre bacchettone e conservatore. Il bambino si rifugia così un proprio mondo di sogni, un’immaginazione incredibile e dilatata che a volte trova applicazione maldestra in situazioni non appropriate. Tre sono dunque i fattori che Fawzy cerca di mettere in correlazione: quello dell’attuazione stolta dei dettami della religione, quello gratificante ed erotico dell’espressione artistica e quello anarchico e libero della sfera infantile. Ne è uscito fuori un film complesso nella sua struttura visivo/narrativa, non privo però di macroscopiche ingenuità che finiscono per mettere a repentaglio la riuscita dell’intera produzione.
Osama Fawzy è comunque un cineasta che intreccia in maniera brillante molte componenti fondamentali della cinematografia mondiale, per assemblare un mosaico personale, mosaico che raffigura in maniera acuta e densa di sfumature un’architettura sociale che appartiene pienamente alla dimensione mediterranea.
Attraverso la descrizione di conflitti umani e psicologici, di fatto comuni a tutta la società moderna, emerge in maniera sorprendente il carattere intimo di una storia che tende ad evidenziare la sostanziale e positiva complessità dell’Egitto della seconda metà del Novecento. L’organizzazione sociale non appare poi così diversa da quella occidentale/europea, a dimostrazione del fatto che addentrarsi in analisi sulle presunte diversità tra civiltà in maniera superficiale e schematica (ancor più quando riguardano popolazioni del Mediterraneo e del Medio Oriente) non fa altro che creare danni (inutili) e aumentare il solco di una differenza, in verità molto sottile. I problemi di realizzazione di Ne’mat, ad esempio, non sono poi così differenti rispetto a quelli che vivevano le donne italiane della fine degli anni sessanta, ne tanto meno la vita culturale sembra di essere di minore intensità. Dunque, il pregio di questo film consiste proprio nel carattere esplicativo degli equilibri e dei cambiamenti di una popolazione araba costretta ad affrontare difficoltà collettive non dissimili da quelle di un qualsiasi borghesia europea.

Baheb el sima impone una riflessione su una delle questioni cruciali degli ultimi anni: la supposta separazione tra occidente cristiano-ricco e mondo arabo-mussulmano in preda agli integralismi più accesi e controproducenti. L’idea che esista un reale e incolmabile distacco ha finito per generare delle vere e proprie mostruosità ideologiche e per collocare una barriera virtuale tra i popoli. Sul versante europeo questa situazione ha generato una totale ignoranza riguardante la società araba che nella mente dei più sprovveduti sembra essere solo luogo di proliferazione incontrollata del fenomeno terroristico.
A tal proposito, basta porsi delle semplici domande. Chi conosce la struttura della Lega Araba? Chi è in grado di decodificare tutti i conflitti interni a questo universo a noi così vicino geograficamente? Quanti in occidente hanno dimestichezza con la lingua e quanti hanno letto Il Corano? Chi conosce le diverse culture ed etnie che si intrecciano nell’Islam?
E’ per senso della misura e per rispetto che non ci addentriamo in riflessioni di carattere religioso, politico e sociologico poiché finiremmo per semplificare colpevolmente una materia delicatissima. Ma un dato è certo: la lettura del Corano o lo studio dell’Islam non sono tra le attività intellettuali più diffuse, ad esempio, nel nostro paese. Allo stato delle cose, è proprio il cinema, arte in grado di valicare confini e sbarramenti che può contribuire a diffondere conoscenza e a far comunicare popolazioni che invece in questi ultimi anni hanno smesso di dialogare, avendo delegato ai mass media, spesso poco raccomandabili, la funzione di veicolare informazioni e notizie.
In tal senso, meritoria è stata l’iniziativa del recente MedFilm Festival di Roma, che oltre a presentare una significativa selezione di opere provenienti da paesi come Marocco, Algeria, Tunisia e Libano, ha riservato un vero e proprio spazio di approfondimento alla cinematografia egiziana. Due le sezioni: una vetrina sulla produzione contemporanea e una rassegna dedicata al maestro riconosciuto della produzione filmica del paese nord africano: Youssef Chahine.

Nella prima sono stati presentati cinque lungometraggi realizzati tra il 1999 e il 2003, opere in grado, dunque, di fornire allo spettatore italiano/europeo gli strumenti analitici utili per comprendere la direzione estetica e contenutistica di questa cinematografia. Almeno quattro lavori sono incentrati sulla stessa tematica: la vita giovanile, con tutte le questioni relative alla realizzazione esistenziale e ad una quotidianità spesso problematica. In El madina (La Ville – 1999), un aspirante attore lascia Il Cairo per trasferirsi a Parigi e tentare la fortuna. Nella capitale francese il protagonista non trova di meglio da fare se non entrare in contatto con ambienti poco raccomandabili legati agli incontri di boxe clandestini. Dopo alcune tragiche disavventure il ragazzo che ha creduto ingenuamente nel sogno della grande metropoli europea fa ritorno nella sua patria con tutte le aspettative non realizzate.
El madina è stato girato cinque anni fa da Youssry Nasrallah, regista cinquantaduenne con alle spalle studi di economia e statistica ed un’attività divulgativa legata alla critica cinematografica. Nasrallah dopo essere entrato nell’orbita di Youssef Chahine, di cui è stato assistente, ha intrapresa una propria carriera. Attualmente ha realizzato quattro lungometraggi.
In Al Abwab al Moghhlaka (The closed doors – 1999) sono narrate le difficoltà esistenziali che è costretto a vivere nella fase di crescita verso l’età adulta il quindicenne Mohammed. Il ragazzino vende fiori per le strade della capitale, mentre la madre lavora come domestica. I sogni legati ad un futuro sereno e di realizzazione professionale si scontrano con la durezza della realtà; così tali problematiche tendono a spingere Mohammed sempre più verso la religione e un integralismo pericoloso.
L’autore, Atef Hatata, ha collocato temporalmente la vicenda durante la Guerra del Golfo ed ha lanciato il proprio sguardo sulla società egiziana evidenziando i motivi e i meccanismi grazie ai quali il fondamentalismo religioso si insinua nella vita delle persone, trovando varchi in quelle zone di insoddisfazione e frustrazione che vengono riempite, appunto, da progetti di vita, e ed anche spirituali, in cui il dubbio non esiste e l’obiettivo risulta molto chiaro.
Una sedicenne è invece la protagonista di Asrar el banat (Girls secrets – 2000) del regista Ali Magdy Ahmed. Si tratta di un film dai temi “difficili” che tocca tasti molto pesanti a livello contenutistico. Yasmin, il personaggio centrale, rimane incinta. Partorisce in solitudine ma il suo tentativo di nascondere questa vicenda personale viene scoperto dalla famiglia. Un matrimonio fittizio, la morte del figlioletto e il divorzio, saranno eventi che chiuderanno una sequenza esistenziale decisamente drammatica che evidenzia le contraddizioni e gli attriti presenti in una società già ricca di difficoltà nella quale si intrecciano drammi familiari e percorsi individuali, certezze portate dalla tradizione e “violente” influenze dell’occidente capitalistico.
Infine, in Hobb el Banat (Girl’s Love – 2003) , Khaled El Haggar, propone la storia di tre sorellastre che si ritrovano a dover vivere insieme per tener fede alle ultime volontà del padre defunto. Nada, Ghada e Rokaya provengono da ambienti diversi e a ciò si aggiunge anche una disuguaglianza caratteriale che amplifica tensioni e scontri. A fornire loro aiuto ci penserà uno psicologo vicino di casa. Ebbene, dalla visione di questi lavori si evince come il mondo giovanile viva negli ultimi anni un fermento notevole, un desiderio di trovare una propria identità, un centro di gravità permanente tra richiamo degli usi e costumi tradizionali e fascinazione dell’occidente, rigide regole della religione e modernità, conservatorismo degli adulti e ’impeto giovanilistico”. Inquietudini peraltro non molto differenti da quelle provate da tutti i giovani dell’area del mediterraneo, area molto più compatta dal punto di vista culturale di quello che certi organi di informazione vogliono far credere.

E la cifra poetica del maestro Youssef Chahine come si inserisce nel sistema cinematografico mediterraneo e quale peso autoriale ha a livello mondiale?
Ebbene, il suo lavoro è stato oggetto di approfondimenti in diverse manifestazioni internazionali, mentre il riconoscimento più prestigioso l’ha avuto certamente nel 1997 al festival di Cannes dove si è aggiudicato la Palma d’oro del Cinquantenario con un una della sue prove più riuscite. Stiamo parlando di Al Massir (Il Destino), film contro ogni forma di integralismo e chiusura culturale, ideologica e religiosa incentrato sulle vicende di Averroè, filosofo arabo di cui il califfo Al Manosur tentò di far distruggere manoscritti e opere, lavori invece salvati in modo rocambolesco dai suoi allievi. Pellicola piena di energia intellettuale, lucidità espositiva e creatività formale, mette in mostra la capacità da parte di Chahine di articolazione del linguaggio filmico. A ciò si aggiunge una spiccata consapevolezza degli automatismi dei generi, i quali vengono abilmente miscelati e rielaborati in uno schema tipico di un cinema influenzato chiaramente dalle più svariate forme filmiche.
D’altra parte quella di Chahine è una figura complessa che unisce in un unico indirizzo vibrazioni culturali arabe e immaginazione visionaria; tale immaginazione si è formata alla scuola del cinema americano ed è basata sulla commistione un po’ folle dei generi nonché sulla forza comunicatrice della commedia, e soprattutto del musical.
Chahine incarna perfettamente la figura dell’autore dei nostri giorni. Oltre a essere regista, è anche attore, sceneggiatore e produttore e dunque si interessa artisticamente e professionalmente di molti aspetti della creatività audiovisiva. Il suo primo film è datato 1950 ed è intitolato Baba Amin (Daddy Honest), opera prima che mette in luce immediatamente l’abilità del regista di mescolare e riproporre in un flusso armonioso diverse tendenze stilistiche e narrative. Successivamente un grande riscontro di critica avviene soprattutto con Ibn el Nil(La ragazza del Nilo – 1951). Tra i titoli più significativi presentati nell’ambito del cartellone del Med Film Festival 2004 (cinque in tutto) senza dubbio è apparso di estremo interesse Bab el Hadid (Cairo Central Station), lungometraggio del 1958 che vide Chahine impegnato non solo come regista ma anche come interprete principale. La sceneggiatura situa la vicenda presso la Stazione Centrale de Il Cairo. In questo luogo metaforico si affolla un’umanità indistinta. La gente va e viene, le storie si intrecciano, in un crescendo di emozioni che via via si evolvono in un percorso dilatato, quasi delirante. In un magma multiforme, si muovono alcuni personaggi simbolo di una condizione esistenziale molto difficile: Abu Sri, forte e generoso capo dei portatori di bagagli, Hanuma, bella e provocante senza tetto che sopravvive con mille escamotages e Kinawi, un semi barbone storpio, e non proprio acuto mentalmente, innamorato follemente di Hanuma. Tra questi personaggi si viene a creare un triangolo inquietante che dirige il racconto verso un abisso di dolore e tragedia. I tre individui sono certamente collegati da un destino comune. Fanno parte di quella fascia sottoproletaria costretta a vivere e ad operare in una condizione assai precaria, tra sfruttamento del lavoro e indigenza assoluta. La borghesia rimane indifferente agli stenti dei più poveri e degli emarginati popolando una città dal respiro quasi occidentale.
Il film propone una chiara ideologia “proletaria” tesa ad evidenziare il disagio di una vita di sofferenze, vita messa in contrapposizione al baraccone rutilante de Il Cairo, rappresentato attraverso le strade esterne alla stazione, piene di macchine e di passanti ben vestiti. Ciò che colpisce fortemente di questa pellicola è l’attualità dello sguardo dell’autore, attualità riscontrabile anche nella tematiche affrontate. Chahine adotta uno stile carico, denso, articolato, già perfettamente sostenuto da un uso virtuosistico della macchina da presa. Le inquadrature, le angolazioni, gli obiettivi, la potenza drammatica dei primi piani, i movimenti della cinepresa costruiscono una fitta griglia stilistica che tuttavia non appare mai squilibrata. Su questo tessuto formale si innesta la vicenda realistica di Kinawi, Hanuma e Abu Sri i quali intrecciano i loro destini in maniera inestricabile in una sorta di vortice pieno di angoscia. In tal senso, il racconto dai toni neorealistici si tinge di venature melodrammatiche e di sviluppi parossistici, quasi visionari. Chahine dipinge una condizione dolente, ne esaspera le problematiche interne per comunicare un messaggio politico a difesa delle classi più deboli e dei lavoratori.

Effettuando un salto di oltre quarant’anni si arriva a Skout…hansawar (Silence …on tourne) pellicola del 2001 che riassume nell’arco di 102 minuti l’evoluzione artistica di un autore che ha costruito la sua filmografia grazie a un tragitto creativo riconoscibile e decisamente solido. Nel caso di questo lungometraggio, Chahine racconta una vicenda contemporanea, puntando l’obiettivo della macchina da presa su una porzione di società che potremmo definire altolocata, più che benestante. Una famosa e bella cantante, Malak, interpretata dalla star di origine tunisina Latifa, conduce un’esistenza ricca di successo e popolarità, in un agio kitsch e banalmente aristocratico. Ad una realizzazione professionale non corrisponde però una soddisfacente vita personale. Il marito, un potente avvocato, vive in un’altra casa, così le giornate di Malak sono divise tra il lavoro e i problemi della giovane ed esuberante figlia, In questa situazione di fragilità psicologica si insinua abilmente, il furbo e arrivista Maley, aspirante attore che intende servirsi della relazione sentimentale con Malak per usufruire del denaro della diva e per sfruttare le conoscenze nell’ambito del mondo dello spettacolo di quest’ultima.
Parabola sulla divaricazione tra esternazione dei sentimenti e freddezza dell’ambiente di lavoro, tra costruzione di una vita interiore sincera e pura e rapporti interpersonali creati solo in funzione del potere dei soldi, Skout…hansawar è un film irrisolto e ingenuo. L’impostazione è quella tipica della commedia, impostazione che si fa con l’evoluzione della storia sempre più paradossale, eccessiva, caricaturale e per certi versi fumettistica. I personaggi sono tagliati con l’accetta e superficiali, tutti dotati di un carattere fin troppo netto e di un’identità che non subirà delle mutazioni se non assolutamente superficiali.
In questo caso poi, la classe proletaria, quella a cui appartiene Maley, viene veicolata attraverso un personaggio di bassa lega che intende usare in maniera truffaldina la ricchezza del ceto alto-borghese che invece si manifesta candidamente. Malek ama profondamente il suo “fidanzato” e fa di tutto per compiacerlo mentre dall’altra parte c’è solo falsità e opportunismo.
Chahine elabora in questa sua opera tematiche diverse: il cinema nel cinema, la confusione esistenziale di individui abituati a immaginare la vita come un grande set, le illusioni di chi vede nello spettacolo un paradiso che non esiste e la disillusione di chi invece dallo spettacolo sembra aver avuto tutto, ma non l’amore.
Le incursioni nel musical rappresentano i cardini della struttura di questo lungometraggio, l’apertura verso una narrazione leggera e soave, che tra l’altro rientra pienamente nella tradizione più classica del cinema egiziano da sempre molto attento a Hollywood.
Gli stessi identici procedimenti creativi sono peraltro riscontrabili anche in Iskandariya kaman wa Kaman (Alexandria again forever), lavoro (inserito in una Trilogia) del 1990 incentrato sulla dura vita di una troupe alle prese con uno sciopero della fame che deve servire per ottenere dei diritti negati. Yehia è il cineasta a capo della troupe che è intenta nella protesta e condivide le sue tensioni e le sue aspirazioni artistiche e politiche con il giovane attore Amir e con Nadia, una collaboratrice, di cui si innamorerà e con la quale condividerà l’impegno civile. Il regista delega ogni azione comunicatrice agli oleati congegni della commedia, congegni che come spesso avviene nella traccia creativa sono intrecciati indissolubilmente al musical e all’amore viscerale nei confronti della macchina cinema. Lo stile è come sempre estroso, imprevedibile e pirotecnico, stile che in determinati frangenti forza il delicato equilibrio del film sempre in bilico tra ironia e banalità, intelligenza formale ed eccessi, armonia della struttura narrativa ed improvvise derive piene di ingenuità. Quello di Chahine, dunque, è un cinema ricco di talento, inventiva, immaginazione e coraggio, fattori però non sempre indirizzati e miscelati in modo compiuto ed efficace. L’obiettivo constante dell’autore di Al Massir è quello di coniugare con cura poesia e spettacolo, approfondimento lirico a divertimento, visione esistenziale legata alla cultura araba e influenze americane. Non sempre questo metodo di lavoro riesce a dare buoni risultati, per questo la sua filmografia è caratterizzata da alti e bassi vistosi e da cadute retoriche e ideologiche non chiare come è riscontrabile nell’episodio da lui diretto nell’abito del film 11’ 09’’ 01 (2002), operazione produttiva che a distanza di qualche anno desta qualche perplessità e tutti i suoi limiti (concettuali), anche per ciò che concerne la sua efficacia culturale e divulgativa.


di Maurizio G. De Bonis
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