Cinema e musica a Venezia74

Il ruolo della musica in tutte le sezioni del Festival è ormai talmente protagonistico che una giuria ufficiale e un premio ad esso dedicati sarebbero pienamente giustificati.

Sarebbe tempo che la Biennale istituisse nel suo palmarès anche un Leone per la musica alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Attualmente esiste da qualche anno il premio collaterale Soundtrack Stars Award per i film della selezione ufficiale, andato in questa edizione a Pivio (Roberto Pischiutta) e Aldo De Scalzi per il lavoro, complicato e scoppiettante, intrapreso nel musical Ammore e malavita dei Manetti Bros. (con il quale il duo ha un sodalizio sin dai tempi dell’Ispettore Coliandro).

Ma il ruolo della musica in tutte le sezioni è ormai talmente protagonistico che una giuria ufficiale e un premio ad esso dedicati sarebbero pienamente giustificati. E questo anche prescindendo dai film che ruotano diegeticamente intorno alla musica come il biopic Nico di Susanna Nicchiarelli, sulla cantante ex musa di Andy Warhol e vocalist dei Velvet Underground, o il doc Ryuichi Sakamoto: Coda di Stephen Schible sul grande compositore giapponese di Oshima, Bertolucci, De Palma, o ancora La mélodie di Rachid Hami, remake non dichiarato di La musica del cuore di Wes Craven in cui Bruno Coulais si limita a far da contorno ai temi di Rimsky-Korsakov per “Sheherazade”, e tanti altri… L’attenzione andrebbe invece spostata sulle partiture originali che nel bene e nel male certificano lo stato di salute di quella che è stata chiamata “l’ottava arte”, e la cui assenza programmata – va detto – non sempre si traduce in maggiore efficacia drammaturgica, come dimostra l’indigeribile Mother! di Darren Aronofsky (che con tutta evidenza non è né Bresson né Buñuel, per citare due maestri che nei propri film non amavano l’elemento musicale).

Andrebbe anche dissipato una volta per tutte lo stolido principio (ancora duro a morire) che ritiene la musica per il cinema di per sé stessa ancillare, secondaria, surrogata rispetto alla cosiddetta “musica assoluta” (mai capito cosa significhi), principio purtroppo avallato dagli “inferiority complex” di alcuni pur grandissimi compositori di settore e dalla spocchia supponente e poco informata di molti improvvisati esegeti. Perché, così come nella vita di tutti i giorni colpe e meriti non sono dei gruppi, degli insiemi, bensì degli individui, così anche nella vita culturale le valutazioni bisogna farle caso per caso.

E caso per caso a Venezia 74 si è sentito del buono e del meno buono. Due categorie nel cui mezzo sembra collocarsi l’onnipresente Alexandre Desplat, oggi sicuramente il musicista cinematografico più richiesto su piazza internazionale: il suo stile iniziale, legato al cinema francese e in particolare ai film di Jacques Audiard, sembrava rileggere i canoni del minimalismo attraverso un camerismo neoromantico e raffinato, ma l’incontro con Hollywood ne ha ampliato ambizioni e mezzi, come ha dimostrato qui in The shape of water di Guillermo Del Toro, fluviale partitura melodrammatica con punte visionarie e ultrasentimentali, e con Suburbicon di George Clooney (con cui Desplat ha allacciato una stretta collaborazione), thriller music tutta sopra le righe e aggressivamente sbalzata. Restano i limiti di un compositore che ha i ritmi lavorativi di un Max Steiner negli anni ’40 o di un Morricone nei ’60 (il suo nome è anche nei crediti di Espèces menacées di Gilles Bourdos), ma senza possederne il respiro né la personalità. Più interessanti il tocco arguto e garbato di Rolfe Kent per Downsizing di Alexander Payne, o il tenue lirismo melodico di Thomas Newman per Victoria & Abdul di Stephen Frears, mentre Carter Burwell funziona unicamente da referente del “Coen’s touch” in Three billboards outside Ebbing, Missouri di Martin McDonagh e Elliot Goldenthal stupisce con Our souls at night di Ritesh Batra, adornata da sommessi accordi di chitarra country, curiosi per un compositore che con i film di Neil Jordan, David Fincher e le prime prove della sua compagna Julie Taymor ci aveva abituati a tonalità violente e tragiche.

Tra gli italiani si notano importanti collaborazioni all’estero, come quella di Ludovico Einaudi per Sandome no satsujin (Il terzo delitto) di Hirokazu Kore-eda, di cesellata e vitrea rarefazione, vecchie conoscenze come i 99 Posse (“Veleno” di Diego Olivares e “Il cratere” di Luca Bellino e Silvia Luzi, entrambi nella Sic), Paolo Vivaldi per Il contagio (Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, Giornate degli Autori), i sottrattivi Sergio Marchesini (L’ordine delle cose di Andrea Segre) e Michelino Bisceglia (Hannah di Andrea Pallaoro) e il gruppo romano di rock-progressive Albergo Intergalattico Spaziale per “Controfigura” di Rä di Martino. E tuttavia, se fossimo stati in quell’ipotetica giuria, la nostra palma sarebbe andata al francese Éric Neveux (“Intimacy”, “I Borgia” televisivi, “Cézanne et moi”) per lo straordinario lavoro di atmosfere compiuto in “L’insulto” di Ziad Doueiri (appena arrestato, con un atto di intollerabile intimidazione, dalle autorità libanesi al suo rientro in patria), con uno score di sottile tensione spinta sino all’autentica suspense, eppure anche delicato e sensibile nel pedinare il travaglio dei due protagonisti.

Come si vede materia del contendere ce n’è in abbondanza. Restano solo da ufficializzare i contendenti.

In foto: Serena Rossi e Giampaolo Morelli, in Ammore e malavita. Regia di Manetti Bros, Musiche di Pivio e Aldo De Scalzi.


di Roberto Pugliese
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