Carlo Mazzacurati, cantore degli eroi dispari. Un ricordo

La figura di Carlo Mazzacurati è stata fin dagli inizi della sua carriera legata alla Settimana Internazionale della Critica. I suoi lungometraggi Notte Italiana e Il prete bello furono presentati in Concorso alla SIC nel 1987 e nel 1989, mentre in occasione dei festeggiamenti per la 25a edizione della SIC fu presentata (come evento speciale) a Venezia una versione ristampata in 35mm. di Notte italiana.
A distanza di alcuni giorni dalla sua scomparsa, CineCriticaWeb e il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani intendono ricordare Carlo Mazzacurati con un saggio critico di Guido Reverdito.
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Fin dall’esordio di Notte italiana nel lontano 1987 il cinema di Carlo Mazzacurati si era subito presentato con precise caratteristiche che ne sarebbero diventate un marchio di fabbrica in tutti i successivi diciassette titoli diretti e, almeno in parte, anche scritti. E cioè un’immersione nel cuore nero della più bianca delle province (il Triveneto) a caccia di storie che sapessero raccontare da sole con genuino candore e sincera partecipazione affettiva le odissee minime di oscuri travet dell’esistenza costantemente in bilico tra la necessità di sopravvivere al proprio fallimento e la rincorsa di una rivalsa impossibile da raggiungere perché negata dai feroci verdetti della vita.
Non c’è antieroe del suo cinema in margine che riesca a sfuggire a questa logica impietosa in cui tutto si sublima nella celebrazione della frustrazione dietro la quale annaspa l’illusoria consolazione di una prova d’appello regalata in extremis da un destino beffardo. L’Ania inseguita e redenta dal dentista apatico Silvio Orlando di Un’altra vita si ritrova a battere le strade di Roma offrendogli con la sua discesa agli inferi nel cuore di tenebra della capitale l’inaspettata chance di dimostrasi eroe per un giorno anche di fronte al truce pappone di Claudio Amendola. I due misfit che ne Il toro rapiscono un magnifico esemplare da monta per andarlo a vendere all’Est come massiccio risarcimento a un TFR mancato vorrebbero farsi giustizia da sé in un mondo che offre solo raggiri: quando sembra che si arrendano piegati sotto i colpi della propria inadeguatezza alla vita, ecco che il loro passo dispari rispetto alla normalità omologata degli altri compensa le frustrazioni di un’esistenza intera con un inatteso premio di consolazione in zona Cesarini.
Non meno spaiati sono i due magliari padovani maestri di piccole truffe che nel bislacco La lingua del Santo rubano la reliquia di Sant’Antonio con cui cercano di riscattare anni di emarginazione inventandosi nel finale della loro (dis)avventura la scorciatoia verso un risarcimento del tutto inatteso; o ancora la giovane sbandata cecoslovacca di Vesna va veloce che, rimasta in Italia senza un soldo al termine di un viaggio insieme ad alcuni connazionali, finisce nelle mani di un truce racket di sfruttatori dell’Est trovando però nel buon cuore del muratore di Antonio Albanese la chance per redimersi e sfuggire all’inevitabile curriculum di botte e prostituzione cui sarebbe stata irreparabilmente destinata.
E non è da meno a questo proposito il balordo di Fabrizio Bentivoglio che in A cavallo della tigre (remake del 2002 di uno sfortunato ma suggestivo film diretto da Comencini nel 1961) finisce in galera dopo aver tentato di organizzare con la fidanzata una maldestra rapina per ripianare i troppi debiti che ha accumulato e lì si lascia trascinare dai compagni di detenzione a evadere trovando però nel finale la consolazione a sorpresa della donna che lo ha aspettato non ostante i tre anni trascorsi dietro le sbarre.
Così come non può essere di certo definito allineato un altro loser da enciclopedia quale il meccanico tunisino che ne La giusta distanza finisce in galera sospettato di aver ucciso una bella supplente delle scuole elementari con la quale ha avuto una breve relazione e lì si suicida non potendo dimostrare la propria innocenza. A offrirgli un risarcimento – ma soltanto postumo – di una vita di stenti e di difficili tentativi di integrazione nel tessuto sociale della bassa Padana sarà un giornalista alle prime armi convinto della sua estraneità ai fatti al punto da risalire al vero colpevole (italiano e insospettabile) per riscattare per lo meno la memoria di un povero immigrato scelto dalla comunità come facile capro espiatorio per cucirgli addosso l’identikit del mostro.
Un altro perdente per antonomasia è l’ex promessa del cinema che Silvio Orlando impersona nel penultimo film di Mazzacurati, il grottesco e vagamente pasoliniano La Passione: anche qui c’è una forma di alchimia al contrario tra sogni e aspettative e gli schiaffi dell’esistenza: dopo essere stato una promessa mancata del cinema, un reduce del proprio fallimento arriva a cinquant’anni suonati a recitare la parte del regista a caccia dell’esordio importante, finendo col trovare una forma di riscatto beffardo rappresentato da un indegno compromesso (il dover allestire la rappresentazione di una passione di Cristo in un paesino toscano con attori infimi e soprattutto come ricatto da parte delle Belle Arti per aver danneggiato l’affresco cinquecentesco di una chiesa a seguito di una perdita nei tubi della casa di campagna da lui posseduta nel borgo).
Da quando Carlo Mazzacurati è venuto a mancare lo scorso 22 gennaio a seguito di una lunga malattia (che però non gli aveva impedito di girare un ultimo film, La sedia della felicità, presentato in anteprima al Torino Film Festival dove il regista patavino ha ritirato due mesi fa il premio alla carriera e che uscirà postumo a fine aprile), non c’è stato un quotidiano o un sito web che non ne abbia ripercorso la parabola produttiva e creativa applicando alla sua impostazione registica e alla sua visione d’insieme la facile etichetta di cantore della provincia veneta e delle sue molte inquietudini nascoste sotto l’apparente pulizia di facciata.
Un’etichetta di comodo che, pur riassumendo per compendio quella che di certo è una delle tensioni fondamentali del cinema di Carlo Mazzacurati, risulta alquanto riduttiva se si vuole andare aldilà delle generalizzazioni di comodo con l’intento di analizzare con maggiore attenzione le complesse implicazioni socio-culturali che alimentano le anguste dimensioni geografiche del presunto provincialismo di questo appartato epigono dei più accreditarti interpreti della commedia in salsa italiana.
È innegabile che la provincia veneta e la Bassa padana siano un leit-motiv paesaggistico costante in quasi tutte le opere del regista padovano. Un’ambientazione che, da copione, si trascina dietro tutti i luoghi comuni che ogni spettatore pretende inconsciamente di ritrovare in qualsivoglia pellicola girata in quella parte di microcosmo italiano, potendo così avere il conforto delle immagini da sovrapporre all’idea pre-leghista e pre-concetta della Padania che ciascuno ha nella mente. Ovvero atmosfere malinconiche rese soffuse e quasi magiche da nebbie d’ovatta che annullano il paesaggio geografico ma che al contempo occultano come una coperta protettiva tutto il marcio morale che si annida sotto la facciata dell’operosità laboriosa della razza Piave.
Il cinema di Mazzacurati è anche questo. Ma non solo questo. L’onnipresenza della Bassa veneta non ha soltanto una valenza meramente e superficialmente paesaggistica. Il Veneto di Mazzacurati è quasi sempre una sorta di correlativo oggettivo visuale agli scenari di degrado morale e umano che i suoi personaggi mettono in scena vivendo le proprie esistenze dimidiate di antieroi dispari che annaspano nelle nebbie dei propri destini alla ricerca di un possibile senso della vita.
Al punto che forse non si esagera se si struttura una sorta di equazione concettuale tra il senso geografico della Bassa con le sue nebbie che coprono e al contempo emarginano le cose spostandole dal centro verso i margini e la condizione umana dei personaggi che popolano il suo cinema, misfit spaiati che arrancano alla periferia di tutto cercando disperatamente un centro di gravità permamente al di fuori della provincia interiore in cui vivono ingabbiati.
I suoi personaggi esistono cinematograficamente perché la loro emarginazione sociale, culturale e spesso anche razziale, così come il loro vivere in una suburra ontologica sita alla periferia della centralità standard degli integrati, corrisponde in toto al rapporto che la provincia veneta ha a livello di paesaggio antropologico con il resto degli scenari produttvi del paese. Come se i disadattati e i perdenti che popolano le pellicole di Mazzacurati fossero il solo prodotto logico e coerente di una parte di paese che in passato è stata protagonista assoluta della vita economica nazionale ma che adesso deve accettare un ruolo di perifericità in cui restano solo i relitti sociali di conflitti mai risolti in passato e oggi bombe a orologeria destinate a esplodere a distanza ravvicinata una dall’altra.
Con Mazzacurati il cinema italiano perde un lettore per immagini della realtà nostra molto più acuto di quanto in molti non abbiano voluto credere fosse. Un interprete attento e partecipe degli ultimi convulsissimi trent’anni di storia patria che, usando gli strumenti più efficaci della commedia all’italiana uniti a un ricorso moderato ma costante al grottesco, ne ha saputo decifrare in maniera a volte quasi profetica le contorsioni e i tormenti (basti pensare alla sua capacità di presentire in film come Un’altra vita e Vesna va veloce che cosa sarebbe diventato il fenomeno dell’immigrazione di massa di lì a vent’anni). Senza però mai perdere di vista quella giusta distanza che un autore di razza deve sempre avere per poter parlare col dovuto distacco del presente individuandone i germi dell’instabilità futura.
di Redazione