Cannes 2013: Luci e ombre (seconda parte) – Attese (in parte) disattese
Come ricordavamo all’inizio, quest’anno Usa e Francia (cinque film per ciascuno) hanno fatto la parte del leone. A voler sottilizzare quei cinque più cinque si sarebbero potuti ridurre tranquillamente a non più di sette in tutto. Per cominciare, con buona pace dei francesi, Jimmy P. di Arnaud Despléchin e Michael Kolhaass di Arnaud de Paillières ci avrebbero guadagnato a finire in altre sezioni fuori concorso, anche se ambedue i progetti non mancano certo di ambizione e di interesse.
Adattare un romanzo denso, problematico e complesso come Michael Kolhaas del grande romantico Kleist incentrato sull’arduo tema della giustizia umana è un’impresa che richiede mezzi e spalle ben più robusti di quelli di cui dispone il buon Arnaud de Paillières. (Umiliato da un barone feudale, il pacifico mercante cinquecentesco Michael Kolhaas si rivolta, mette su un piccola armata di contadini, tenta di farsi giustizia da sé, e quasi ci riesce; ma quando alla fine depone le armi, non può evitare che l’apparato statale lo punisca esemplarmente per i crimini commessi durante la sua rivolta. Morale della favola: l’ossessione, l’idea fissa della giustizia può portare all’ingiustizia, una problematica decisamente moderna.) Quella che ci offre qui il regista francese è una illustrazione esteriore formalmente corretta ma priva di tensione e di autentica passione, ideale per una serata televisiva franco-tedesca di ARTE. Questo adattamento è un’ennesima dimostrazione che un classico come Kleist lo si dovrebbe lasciare ai tedeschi; finora l’unico adattamento cinematografico kleistiano riuscito rimane La Marquise von O’ del buon Eric Rohmer, che vedi caso era un esperto di lingua e letteratura tedesca!
Ci voleva davvero del coraggio per andare a girare in America un film, Jimmy P., sul singolare esperimento scientifico compiuto nel dopoguerra da un etno-psichiatra francese, il paziente è un indiano della tribù dei piedi neri ferito alla testa nell’ultimo conflitto mondiale; Arnaud Despléchin non è nuovo a questo tipo di esperimenti. Certi momenti del singolare duello tra l’etno-psichiatra e il paziente affetto da turbe psichiche sono appassionanti, l’attore Benicio del Toro nei panni del soldato Jimmy P. è perfetto; ma, al di là dell’interesse scientifico dell’esperimento, la diligente operazione qui tentata dal buon Despléchin in questa non facile trasferta americana sa più di testa che di cuore; manca come dire il senso del mistero. Va comunque reso omaggio al coraggio dei produttori d’oltralpe, che osano muoversi sulla scacchiera mondiale..
C’era un’enorme attesa sul ritorno a Cannes dei fratelli Ethan e Joel Coen, beniamini della critica internazionale, esperti in storie di perdenti. Inside Llewyn Davis (titolo ispirato ad un disco di musica folk dei primi anni Sessanta che fu un celebre insuccesso) è la cronaca spoglia di un anno (1961) di disavventure di un cantante folk sui generis – nella realtà si chiamava Dave van Ronk –, un carattere impossibile, se la prendeva con tutti anche con quelli che potevano aiutarlo, ma artista integro (ebbe la fortuna di godere dell’amicizia di Bob Dylan, il divo che stava per esplodere in quei mesi). Ricerca disperata di un luogo dove dormire, audizioni assai poco esaltanti, un lungo viaggio invernale in auto verso Chicago in compagnia di un insopportabile jazzman obeso eroinomane che lo riempie di insulti (questo episodio è il momento più inquietante e riuscito del film)…
Comprendiamo l’interesse dei registi verso quegli anni in cui nella musica stava per nascere qualcosa di nuovo nei locali più tardi famosi del Greenwich Village. Ma questa passione e ammirazione per la figura di questo perdente non ci sembra che arrivino davvero allo spettatore; tutto rimane tra le righe, come congelato nelle brume dell’inverno newyorkese. Ancora un film algido, “applicato”, di mestiere, che probabilmente non meritava il Grand Prix della Giuria. Il sospetto che questo ritorno dei Coen fosse un pò “un colpo montato” – come si dice in francese – ci era venuto fin dal primo momento percorrendo la massiccia brochure di presentazione, la più ricca ed elegante del festival (ben settanta fitte pagine, un primato assoluto): l’esperienza insegna che in genere i grandi film sono accompagnati da brochures modeste, fatte di poche cartelle essenziali.
I magnifici sette
Fahradi, Zhang-ke, Gray, Kechiche, Escalante, Polanski, Sorrentino: quest’anno la giuria non deve aver avuto un gran lavoro da compiere, la lista dei magnifici sette da segnalare si è imposta da sé. Come sempre, la scelta della palma d’oro ha qualcosa di casuale, legata alle mode della stagione. A pochi giorni dall’approvazione del matrimonio gay in Francia era fatale incoronare un film che rispecchiava la problematica del momento, tanto meglio se si trattava di amore saffico, e se era prodotto dalla Francia!
Palma d’oro 2013 (davvero meritata?), La vie d’Adèle del franco-tunisino Kechiche racconta in tre lunghissime ore una “educazione sentimentale” all’epoca della rivoluzione gay. L’incontro con un’affascinante pittrice borghese dai capelli blu, venticinquenne, rivela alla quindicenne Adèle – di umili origini, si diceva un tempo – la sua propensione verso l’amore saffico. Innamoramento, amore torrido tra la pittrice e la giovinetta, eletta a musa dell’artista (“du jamais vu ” scrive la critica francese, subito entusiasta); ma poi con il tempo il rapporto entra in crisi. per ragioni soprattutto sociali (nel film per nulla approfondite) – e… vivranno felicemente separate. Si lascia intendere che il film potrebbe avere un seguito…
Che dire di questo ambizioso, chiacchieratissimo UltimoTango in salsa lesbica uscito puntualmente l’anno delle nozze gay in Francia? Le qualità “attoriali” sono innegabili: le due interpreti sono di una bravura e naturalezza encomiabili, nel filmare le effusioni dei corpi il regista sa unire insieme verità e spontaneità, delicatezza e una certa provocante crudezza che seduce lo spettatore; ma alla lunga viene il dubbio che l’operazione (furbesca?) intentata qui dal regista sia di carattere più modaiolo che artistico. Il cinquantenne regista – di un’ambizione smisurata pari alla minuziosità, ma rischia di rimanere prigioniero della sua stessa bravura. Aspira a penetrare sotto la pelle delle persone, ma non mi sembra riesca a filmare anche le loro anime. Innamorato dei corpi, il regista sembra essersi dimenticato ad esempio di spiegarci le ragioni profonde di certi comportamenti (lo spaventoso voltafaccia finale della matura borghese che lascia la giovine iniziata nella più cupa disperazione). Insomma Bergman (Il silenzio) e Bertolucci (UltimoTango) erano un’altra cosa.
Una giuria meno legata all’attualità avrebbe probabilmente impalmato Le passé del regista iraniano Asghar Fahradi, quella presieduta da Spielberg si è limitata a segnalare l’interprete femminile Bérénice Bejo (rivelata da The artist). Dopo Una separazione che ha incantato il pubblico di tutto il mondo, Fahradi sta diventando un esperto di vicende familiari ricche di personaggi e problematiche complesse. (Una donna francese, sposata e madre di due figlie, è presa tra due fuochi, due culture. Per preservare la propria identità il marito iraniano da cui lei sta divorziando ha scelto di rientrare in patria; la situazione familiare del nuovo compagno della donna è tutt’altro che semplice, i loro figli ostacolano quella nuova relazione… Riusciranno i nostri eroi a comporre i loro dissidi?) Le donne sono meglio disposte ai cambiamenti, sembra suggerire il film, gli uomini trovano difficoltà a liberarsi del peso del “passato”, tendono a tornare alla situazione precedente; per loro il passato non passa mai veramente .
Il regista racconta questa intricata crisi interfamiliare con una logica implacabile, una sensibilità, una finezza psicologica da autentico maestro del cuore umano; poco importa se la storia si complica un po’ troppo (la storia della scoperta delle mail privatissime, una punta di didattismo da film a tesi che affiora qua e là). Girato interamente in Francia, Il passato è una riuscitissima coproduzione franco-italiana, congratulazioni alla Bim di Valerio de Paolis.
La vita di famiglia è al centro di un altro film a tratti incantevole che ci viene dal Paese dei samurai. Curioso il titolo: Tal padre tal figlio. L’autore, Hirokazu Kore-eda, è un nome da fissare nella memoria. Nessuno si aspettava che dal Giappone potesse arrivare oggigiorno un film così delicato, tutto in finezza. In realtà Kore-eda non fa che riprendere la grande tradizione iniziata negli anni Trenta da Yasujiro Ozu, specialista della vita di famiglia. (In uno dei provvidenziali omaggi al grande cinema del passato, del Maestro Ozu abbiamo potuto riscoprire Il gusto del saké; ottima iniziativa questa riproposta di classici, presentati nella Sala Luis Buñuel dal benemerito Thierry Frémaux).
Prendendo spunto da uno scambio di neonati scoperto tardivamente, Tal padre tal figlio rievoca, con una sottile vena poetica non priva di humour, il dramma di due coppie di genitori messi bruscamente con le spalle al muro: rinunciare al figlioletto con cui sono vissuti per sei anni, e prendersi in casa il “figlio biologico”, che è uno sconosciuto, o continuare come prima? Il legame del sangue deve prevalere su quello degli affetti? I veri padri non sono quelli – morali – che crescono i figli? Le due coppie di genitori – la borghese e la proletaria – cominciano a conoscersi, a frequentarsi; lo scambio dei “figli”, inizialmente a titolo di prova, riserva mille e una sorpresa allo spettatore che rivive l’insolita vicenda come una tenera fiaba.
In ogni festival si cerca sempre il film-rivelazione. Più che La vie d’Adèle, adottato immediatamente dai media come l’Evento (a causa anche della sua problematica hard) la vera rivelazione di questa edizione, un autentico pugno allo stomaco, è stato invece Heli (nome del giovane operaio protagonista) del messicano Amat Escalante. Questo coraggioso noir sociale rivela e denuncia un fenomeno allarmante dell’odierna società messicana, la piaga della droga. Pochi sanno che la distribuzione mondiale degli stupefacenti non viene più gestita in Colombia ma in Messico; Heli ci rivela per la prima volta i metodi efferati usati dalle bande rivali di trafficanti in lotta tra loro e con la polizia. A farne le spese è come sempre las povera gente. Per punire chi sgarra o viene sospettato, le bande ricorrono a volte a gruppi di… adolescenti, i quali improvvisandosi torturatori rivelano un cinismo, una crudeltà inimmaginabili (la scena dei genitali bruciati!). Queste terrificanti sequenze di tortura fanno apparire banale e falsa la violenza che vediamo di solito nei film noir.
Heli è una sorta di moderno Los Olvidados del nuovo millennio. (Ricordate il durissimo film di Luis Buñuel anni Cinquanta, ribattezzato da noi I figli della violenza ?) La giuria ha fatto bene a segnalarlo, c’è un gran bisogno di film che osano denunciare senza fronzoli gli orrori veri della vita reale. Ma da noi chi avrà il coraggio di distribuire il film Amat Escalante ? Alla conferenza stampa del regista messicano in sala eravamo solo una ventina ad ascoltarlo. La scusa ufficiale è sempre la stessa: i redattori dei giornali vogliono i divi, scandali pettegolezzi.
Anche se il premio per la miglior sceneggiatura gli sta un po’ stretto, nel Palmarès non poteva assolutamente mancare un altro sorprendente film sulla violenza, il cinese A touch of sin diretto da Jia Zhang-Ke (noto in occidente soprattutto per Still life, leone d’oro a Venezia nel 2006). Il film è composto di quattro storie ispirate a fatti di cronaca realmente accaduti in diversi angoli sperduti della Cina di oggi, un continente in ebollizione. La propaganda parla di “crescita armoniosa”, in realtà lo sviluppo vertiginoso dell’ultimo trentennio ha portato soprattutto una grande miseria morale. Salari iniqui e condizioni di lavoro insostenibili nelle grandi società sia statali che private, corsa inflazionistica dei prezzi degli alloggi, sopraffazione e corruzione da parte dei dirigenti che si arricchiscono sfruttando impunemente i lavoratori (ridotti a vivere in villaggi fatiscenti pomposamente chiamati “Oasi della prosperità”), disprezzo delle leggi, violenza, machismo, fascino crescente delle armi da fuoco tra la gente: le trasformazioni in negativo della nuova Cina sono i veri protagonisti dei quattro episodi emblematici che compongono il film (per il regista formano come un unico racconto: quattro momenti parossistici nella vita dei cinesi senza privilegi di oggi). Come scrive Libération, Zhang-Ke (classe 1970) conferma di essere “il più acuto osservatore di un mondo morale e sociale, di un paesaggio umano devastato…In quest’ultimo film la sua capacità descrittiva, così precisa e dettagliata, si apre ai codici violenti del cinema di genere: western, arti marziali, thriller”. Ce lo faranno vedere in Italia?
Per concludere nel modo migliore un festival così impegnativo ci voleva una bella commedia. Presentato l’ultimo giorno, Venere in pelliccia del redivivo Roman Polanski ha mandato il pubblico in delirio. Il regista franco-polacco ci offre qui una trasposizione iper-brillante di una fortunata pièce teatrale, liberamente ispirata a un singolare romanzo ottocentesco di Leopold Sacher-Masoch, l’inventore potremmo dire del “masochismo” (“Aspetto con ansia di essere frustato da lei” sogna il protagonista). Che Polanski potesse interessarsi a un simile soggetto non sorprende: nei suoi verdi anni aveva girato un’incantevole commedia vampiresca di successo (Per favore non mordermi sul collo) dimostrando di saper manovrare l’ironia come pochi. Parafrasando quel delizioso titolo vampiresco, Venere in pelliccia potremmo intitolarlo
Per favore mettimi il collare !
Lo straordinario successo ottenuto a Cannes da questo spiritosissimo divertissement sul sadomasochismo è in gran parte dovuto allo stato di grazia del regista e dei due formidabili interpreti: Emmanuelle Seigner (l’aspirante attrice, compagna di Roman nella vita) e Mathieu Amalric (il regista che fa le audizioni in teatro; curiosamente Amalric ha la statura e la faccia furbesca di Roman da giovane). L’effervescenza della regia e la genialità degli interpreti ci fanno dimenticare subito che l’azione si svolge in un teatro vuoto. (L’attrice in cerca di un ruolo arrivata in ritardo all’audizione finisce con i suoi modi irritanti per sedurre il regista, che alla fine si trasforma in un’incarnazione vivente di Masoch, in balia della sua diabolica Venere in pelliccia.) In un fascinosissimo gioco di specchi e di rimandi tra commedia e vita, l’attrice e il suo regista si scambiano continuamente i ruoli, realtà e finzione si sovrappongono, in una cascata di situazioni esilaranti, di battute irresistibili (“Come puoi recitare così bene ed essere così stupida?” mormora il regista incredulo, e si lascierà mettere il collare). Si esce da questo stupendo gioiello di cinema-teatro con una gran voglia: rivedere subito lo spettacolo. Perché mai ai festival le buone commedie bisogna cercarle con il lanternino?
Essendo già uscito in sala abbiamo lasciato per ultimo La grande bellezza, il memorabile film di Sorrentino stranamente trascurato dalla giuria di Spielberg (ma era prevedibile). Forse il geniale regista napoletano ha commesso un errore a citare per eccesso di modestia, nelle interviste prima di Cannes, i modelli remoti del suo film: La dolce vita, La terrazza (Scola); qualcuno si è sentito autorizzato a pensare che La grande bellezza fosse una sorta di film di serie B, un omaggio ai maestri del cinema italiano che si erano occupati di Roma e dei romani… Quasi nessuno ha sottolineato invece l’insolito coraggio dimostrato da Sorrentino a osar mettersi in qualche modo in competizione con monumenti come La dolce vita, Fellini Roma.
A ben guardare, tra i due film le differenze sono più numerose e sostanziali delle analogie. Quello di Federico (scritto con Flaiano e Pinelli) era un potente affresco di un’epoca, La dolce vita procedeva per grandi capitoli autosufficienti (l’arrivo a Roma di Anita Eckberg, i nobili, il falso miracolo ecc.); La grande bellezza è un film impressionista, procede per una ricca serie di piccoli episodi. Girato (si badi) in studio, sulla spinta del rilancio del dopoguerra, La dolce vita ritraeva l’effervescente café-society internazionale che gravitava intorno a Via Veneto, e, da buon dialettico, di quell’epoca di espansione apparente Fellini rivelava le prime oscure crepe. Girato dal vero sui colli, le terrazze, nei palazzi romani, La grande bellezza celebra le bellezze della città eterna, dell’esistenza dei romani di oggi mostra l’inquietante vacuità, documenta la malinconica fine di un’epoca senza più ideali (dei critici francesi hanno suggerito che il discorso di Sorrentino si allargherebbe all’intera Europa). Toni Servillo, lo scrittore fallito testimone della decadenza, è in certo senso un Marcello Mastroianni invecchiato e deluso che ha la coscienza di aver dissipato la sua vita, e si trova a confrontarsi amaramente con il nulla.
In comune con il modello – Fellini – che non intende minimamente imitare, Sorrentino ha la capacità di creare delle immagini di squisita bellezza, il gusto per i défilé di personaggi che appaiono e scompaiono, la passione per i movimenti della cinepresa, il gusto dell’accumulazione barocca di ritratti colti al volo e di visioni fuggitive che lo spettatore non fa in tempo a memorizzare, e si rivelano solo a una successiva visione: il funerale-lampo, la sequenza dissacrante dell’action painting – l’arte è morta! -, la grottesca seduta pubblica di chirurgia estetica…e l’elenco potrebbe continuare. Come Fellini, il suo ammiratore Sorrentino sa cogliere quello che il pittore espressionista Scipione in un celebre quadro chiamava “il sonno romano”.
Come si può vedere questo film singolare – così sottile, raffinato, libero nella forma – non manca di alte qualità, di spunti geniali; anche troppi per essere apprezzato a dovere in un festival che a volte non sa rinunciare un pò di più alle mode, e alla mondanità.
di Aldo Tassone