Cannes 2013: luci e ombre (prima parte)
Inaugurato sotto una pioggia battente che non smetterà per una settimana, Cannes 2013 passerà alla storia come una delle edizioni migliori. Cinque pellicole francesi e altrettante americane hanno monopolizzato metà Concorso, e quasi due terzi del Palmarès. E non senza merito: sono indubbiamente le due cinematografie più agguerrite del momento, non saremmo certo noi italiani a poterci lamentare. (Anche se l’assenza dal Palmarès dell’ottimo film di Sorrentino resta un po’ inesplicabile, ma forse dovevamo pagare il Gran Premio della Giuria assegnato a sorpresa lo scorso anno al non eccelso film di Garrone grazie alle abilissime manovre del presidente Nanni Moretti; quest’anno poi non c’erano giurati italiani e quindi siamo rimasti a bocca asciutta.)
Invece di sorprenderci o lamentarci, noi italiani dovremmo solo deciderci a imparare finalmente la lezione che, da un ventennio e più, ci stanno dando i cugini d’oltralpe. Come ricordava opportunamente il presidente della Medusa al “Corriere della Sera” (27 maggio), se la cinematografia francese ci subissa in quantità e qualità di opere prodotte lo si deve alla loro illuminata politica culturale: “Il loro sistema di aiuti al cinema è ben dieci volte più grande ed efficace del nostro”; “ci vuole una volontà politica e una strategia a lungo termine, non basta investire sull’immediato come facciamo noi; abbiamo estro e creatività, ma non riusciamo a unire le forze”. E dire che nei magici anni Cinquanta-Settanta all’epoca d’oro delle coproduzioni lo sapevamo fare così bene.
I cugini francesi hanno su di noi anche un altro vantaggio (una qualità che a volte è anche un difetto, ma perdonabile): quel sano orgoglio nazionale che noi italici mettiamo ahimé quasi solo nel calcio. Basta vedere come i giornali parigini difendono le produzioni nazionali. Sulle pagine del “Film Français” – periodico specializzato che durante il Festival riporta ogni giorno i giudizi dei vari quotidiani, le cosiddette stellette – i film di bandiera vengono regolarmente avvolti nella cotonina. Il giorno in cui uscì il film del regista franco-tunisino Kechiche, poi insignito della palma d’oro, la casella riservata al film era piena zeppa di palme. La fortuna dei francesi è che per loro il Cinema è come la Formula Uno. Questi osanna parigini sono certo eccessivi, a volte irritanti, ma intanto vincono, mentre noi con i nostri “distinguo” (al film di Sorrentino il “Corriere della Sera” assegnava solo due misere stellette su quattro) in arte come in politica finiamo per autosabotarci.
Una buona annata, dicevamo. Proprio per questo ci è parsa strana la presenza in Concorso di un paio di opere a dir poco spurie, su cui val la pena riflettere. Che ci faceva ad esempio sulla Croisette Dio solo perdona del danese Winding Refn? Come sia entrato in Concorso Dio solo lo sa. In realtà le ragioni sono molto evidenti: Dio solo perdona era coprodotto dalla Francia, e due anni fa Drive, il film precedente del regista danese, aveva avuto a Cannes un’accoglienza trionfale; siccome c’era una grande attesa intorno alla nuova opera del regista di Drive, rinunciare a metterla in concorso sarebbe stato un atto eroico… Ma il pubblico di Cannes questa volta non ha “perdonato”. La crescente perplessità degli spettatori che assistevano alla prima di Only God forgives , i sonori fischi alla fine della proiezione, hanno mandato all’aria il castello di carta.
Naturalmente i tenaci “fan” dell’autore – i “refnesiani” scalzi, come ieri c’erano i “larsiani”, i partigiani di Lars von Trier, tanto per stare in Danimarca – si sono lanciati in lambiccate difese d’autore. “Un labirinto terribilmente intelligente”, scriveva un quotidiano francese. Dio solo perdona andrebbe visto “come un esercizio di stile” (giustificazione di comodo che si tira sempre fuori quando si vuol coprire un fallimento). Ma è proprio di uno stile personale – oltreché di un’anima – che il nuovo film del regista danese prematuramente consacrato maestro è clamorosamente privo: il suo linguaggio è un cocktail mal riuscito di stilemi alla Tarantino, Cronenberg, Wong kar Wai, Lynch.
Assenza totale di una trama comprensibile, sprezzo della logica più elementare, una serie di delitti tanto ingiustificati quanto efferati, un sistematico elogio del gratuito e del nulla, personaggi ridotti ad archetipi robotizzati, attori rigorosamente inespressivi: ma chi vuol prendere in giro l’autore di questo presuntuoso pasticciaccio che si crede un padreterno? (“Un misto di lady Macbeth e di Donatella Versace”, così viene descritta dall’autore la signora Kristin Scott Thomas, scelta per interpretare una capomafia americana; nel film Madame viene minuziosamente squartata dalla spada del vindice poliziotto thailandese: a che pro mostrare in dettaglio tutte queste efferatezze? L’aristocratica attrice inglese non dovrebbe sporgere querela per danni morali?)
Voltiamo pagina. La seconda delusione del Concorso di Cannes 2013 è un film francese – Un château en Italie – interpretato e diretto da una giovane signora di origine italiana che si è fatta un nome in terra di Francia: Valeria Bruni Tedeschi. (Dispiace che questo fosse di fatto l’unico film al femminile della competizione.) La famiglia dell’ industriale piemontese Bruni Tedeschi avrebbe scelto di emigrare oltr’alpe all’epoca delle brigate rosse per sfuggire – si dice – ad eventuali minacce; quella fuga porterà fortuna alle due figliole, Carla e Valeria. Sposando Sarkozy la mannequin e cantante Carla diventerà Prima Dame de France, e Valeria l’intellettuale sceglierà con successo la via del teatro e del cinema. Fin dal primo film di Valeria regista (È più facile che un cammello…, 2003) emergeva già quella vena familiare autobiografica che ritroviamo al centro di Un château en Italie.
Una proprietà in vendita (il castello avito del titolo), la dolorosa convivenza con un fratello amatissimo condannato dalla malattia del secolo, nevrosi familiari, amori sfortunati, la ricerca disperata di un figlio: non manca certo la materia per una toccante cronaca familiare, alla Pugni in tasca… Ma con l’autobiografia bisogna andarci cauti. Discreta interprete, specializzata si direbbe in ruoli nevrotici, la sensibile Valeria non sembra possedere come regista il giusto distacco dalla materia che intende trattare, e la scelta di recitare lei stessa il ruolo della protagonista Louise la obbliga ad uno sfibrante doppio lavoro. La storia non manca di spunti interessanti, ma l’autrice non sembra avere la tempra dell’autentico narratore in grado di trasfigurare la materia aneddotica in un racconto unitario, la capacità di ritrarre dei personaggi umanamente credibili, e si perde in minuti dettagli impressionistici. La mancanza di naturalezza esplode in episodi involontariamente grotteschi: l’insistita sequenza dell’inseminazione artificiale, la caccia alla sedia miracolosa che renderebbe feconde le aspiranti madri…
A parte il fratello malato (eccellente Filippo Timi, il Mussolini di Bellocchio), e Madame Bruni Tedeschi (nella parte della volitiva materfamilias, eccellente al pianoforte), molti personaggi mancano clamorosamente di autenticità: il bel tenebroso fidanzato interpretato (come nella vita reale) dal giovane attore Louis Garrel, e l’amico ubriaco, recitano costantemente sopra le righe. Dov’è la “contagiosa leggerezza” di cui ha parlato certa critica, dove sono la “commozione e il plauso” che avrebbero accolto a Cannes la prima del film? C’ero anch’io tra il pubblico pomeridiano della Sala Debussy, coloro che battevano le mani quasi ad ogni scena facevano parte ovviamente della claque degli amici dell’autrice, sembrava quasi di essere in uno studio televisivo. (Per la cronaca, la diva Carlà ha avuto il buon gusto di non scendere sulla Croisette, gliene diamo atto. Di lei comunque si sente la mancanza nel ritratto di famiglia stilato dalla sorella Valeria: l’indagine sul rapporto segreto tra le due sorelle sarebbe stata sicuramente molto interessante.)
Sono nata e cresciuta in Italia, ed è un pò come se il mio film battesse bandiera italiana, aveva detto l’ineffabile Valeria a un giornale milanese prima della proiezione. Dove finisce la captatio benevolentiae e comincia il narcisismo, la presunzione? Chi l’assicurava che l’Italia avesse bisogno proprio di lei, di quel tipo di cinema intellettualistico-snob che lei sembra privilegiare? A tenere alti i nostri colori bastavano Sorrentino (La grande bellezza), esordienti come Antonio Piazza e Fabio Grassadonia (Salvo, geniale debutto premiato alla Settimana della Critica), e Valeria Golino (Miele).
Mi sono dilungato sul caso-Valeria BT perché mi sembra la spia di una tendenza festivaliera soprattutto francese dura a morire: lo “snobismo intellettualistico”. Certi critici soprattutto francesi continuano ad essere ossessionati dalla ricerca sistematica del nuovo per il nuovo, al punto da sottovalutare sistematicamente il cosiddetto cinema di genere creato da solidi artigiani che si preoccupano più del pubblico che del loro Ego. È accaduto anche quest’anno per alcuni titoli del concorso.
Come l’emozionante The Immigrant di James Gray, accolto da taluni con delle perplessità incomprensibili solo perché si rifarebbe secondo loro alla tradizione del melodramma classico. Giù il cappello davanti a questa sottile, toccante “Traviata” (ma di spirito pucciniano!) ambientata tra gli emigranti nella New York popolare dei primi anni venti. Si sente che “essere umani nel mondo” continua a rimanere la preoccupazione fondamentale del regista di Little Odessa (leone d’argento nel 1994 a Venezia).
A proposito di film di genere, è incomprensibile come la critica quasi all’unanimità abbia lasciato cadere del tutto il film Shield of straw del giapponese Takashi Miike, un noir vertiginoso, tecnicamente brillantissimo, sul funzionamento della Giustizia (una sorta di “Salvate il testimone”!). Perché storcere la bocca davanti a un film d’azione capace di tenere incatenato lo spettatore per due ore? “Se l’avesse firmato Kurosawa o Kubrick gli darebbero almeno tre stelle” mi confidava uno dei migliori critici d’oltralpe all’uscita dalla proiezione. Certi critici sembrano ancora convinti che al cinema ci si deve per forza annoiare, spremere il cervello, comunque soffrire…
Se Nebraska di Alexander Payne, un road movie iper-classico, è stato accolto con più favore assai lo si deve probabilmente alle frequenti battute comiche del copione. Ai festival le commedie si fanno sempre più rare, e quando dopo giorni e giorni di cupe tragedie greche si intravvede la possibilità di sorridere a un film si tira il fiato. Per nostra fortuna Payne è uno che non ha paura di apparire fuori moda, di occuparsi di sentimenti. Il premio come miglior attore attribuito al vecchio Bruce Dern (nel film interpreta il testardo veterano assurdamente convinto di aver vinto una grossa somma alla lotteria) suona come una sorta di risarcimento postumo: Bruce ha debuttato con Il fiume selvaggio di Elia Kazan, nel lontano 1960; per ora il nostro geniale Toni Servillo può attendere.
di Aldo Tassone