Cannes 2003: Spazi chiusi e prospettive aperte
Dove si svolge il cinema? Dove ha luogo lo spettacolo che racchiude le storie, gli sguardi e le direzioni del cinema? Cannes offre una risposta possibile alla complessità delle rappresentazioni, dei luoghi che il cinema frequenta, delle ambientazioni che ricerca. Durante i dieci giorni di proiezioni, con più di duemila film di tutto il mondo proiettati tra Mercato, Festival e manifestazioni collaterali, il rischio è di perdersi tra le suggestioni variabili degli schermi del Palazzo del Festival.
Forse impauriti da questo pericolo, o forse percorsi da un desiderio nevrotico (e inconscio) di fissare le coordinate e definire gli spazi, alcuni degli autori che finora hanno presentato le loro opere nella sala Lumiere, sembrano aver voluto chiudere le storie in luoghi circoscritti, anche se non sempre rassicuranti e definibili e identificabili. La logica aristotelica di unità spaziale assiduamente ricercata dai registi (o dai selezionatori del Festival?) appare, vista nel suo complesso, come un bisogno di conferme, come un aggrapparsi a punti di riferimento che la contro-logica festivaliera disfa e ricostruisce.
Paura di perdersi? Agorafobia? O bisogno di collocazioni stabili (teatrali potremo dire) contro un mercato di nuove proposte che offre invece schermi e spazi del mondo? Ognuna di queste ipotesi e’ possibile e tutte sono passabili di smentite. Certo è che le case e le ville nelle splendide campagne francesi di Ozon (Swinng pool) e Techine’ (Les Egares), i villaggi e le comunità ristrette di Von Trier (Dogville), Makhmalbaf (A cinq heures de l’apres-midi), Avati (Il cuore altrove) e Haneke (Le temps de loup), o addirittura il penitenziario di Babenco (Carandiru) non danno l’idea di un cinema alla ricerca di nuovi confini, anzi. La macchina da presa appare ora stabile (Ozon) o invisibile (Avati), ora impaurita (Von Trier) o in agguato (Haneke), ma mai rivolta oltre frontiera, mai spinta al di la’ degli orizzonti conosciuti.
Un cinema senza una via di fuga? Così sembrerebbe: le risposte di Cameron, che per svelare nuovi spazi offre una discesa in 3D sui resti del Titanic (Ghost of The Abyss), o dei fratelli Wachowski (Matrix reloaded), che affinano la loro teoria sull’illusione, non lasciano molte uscite. Ma c’e’ uno spazio da percorre ancora: il giapponese Kurosawa Kiyoshi, che intitola il suo film Akarui Mirai (Un futuro luminoso!), fa ritornare al mare, agli spazi aperti e liberi una miriade di meduse velenose che uccidono per difendersi e brillano la notte illuminando i canali di Tokyo. E’ un segno di una ricerca di libertà, forse pagata cara, una libertà che non si trova nelle case e nelle storie conosciute e frequentate degli ambienti di sempre. Una libertà anarchica e illusoria che gioca per la strada come la banda di ragazzini nel finale, in attesa che si accendano le luci e si possa proseguire.
di Giorgio Manduca