Cairo International Film Festival 2012

Pubblichiamo il report che Patrizia Pistagnesi ha effettuato per il sitoweb della FIPRESCI in occasione del Cairo International Film Festival 2012.

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E’ difficile parlare del Cairo International Film Festival senza considerare il contesto in cui si è svolta questa edizione. Una città in perenne mobilitazione contro i decreti costituzionali governativi. Scontri con la polizia e con i supporters dell’attuale Presidente. Eccitazione e confusione ovunque, fin nella Opera House, nelle sale di proiezione, come era inevitabile malgrado gli sforzi eroici dell’organizzazione del Festival.

C’era da aspettarsi che la stessa febbre animasse la selezione proposta per il concorso internazionale riservato al lungometraggio di finzione, soprattutto quei film, non molti per la verità, provenienti dal mondo arabo. Ma è probabile che si debba ancora aspettare per vedere il meglio di una riflessione cinematografica sulla Primavera Araba.

E’ stato così che, alla fine, il premio della giuria Fipresci è andato al venezuelano Breach in the silence (Brecha en el silencio), di Luis Alejandro and Andrés Eduardo Rodriguez, due registi provenienti dal documentario e da una lunga pratica sociale, opera dedicata al tema incandescente dell’abuso sessuale in ambito familiare, nel contesto di una società povera e degradata.

Il film narra la storia dell’adolescente Ana, sordomuta, ripetutamente violentata dal marito di una madre inconsapevole, il percorso della sua presa di coscienza, e infine la lotta per salvare se stessa e i suoi fratelli più piccoli, Sofia e Manuel. I due autori prendono audacemente il rischio di abbandonare una lunga pratica documentaria per rendere il senso profondo, il risvolto psicologico ed esistenziale dell’abuso e della violenza familiari attraverso un linguaggio cinematografico efficace e ardito, pur se a volte lievemente ridondante, barocco. Ci regalano così scene di grande intensità emotiva e di potenza significante, come quella in cui lo sguardo della madre sulla soglia di una porta indugia con inconscia consapevolezza sui tre figli allacciati in un abbraccio solidale e disperato allo stesso tempo. Il personaggio di Ana – l’attrice, Vanessa di Quattro, ha vinto il premio per la migliore interpretazione femminile della giuria internazionale del concorso presieduta da Marco Müller –  insisterà a lungo nel nostro ricordo, pur priva della parola e di qualsiasi gestualità esasperata, solo con la forza della sua espressività catturata ed esaltata dalla macchina da presa.

Un’attenzione simile al mondo femminile e al suo impatto con un contesto alla deriva sociale e culturale a causa delle sue stesse contraddizioni strutturali, caratterizza il film di un regista di più lunga esperienza nel lungometraggio di finzione, come il greco Dimitri Athanitis, Three days of happyness (Tris Meres Eftihias). Forse più ambizioso ma meno riuscito, l’autore mette in scena tre personaggi di giovani donne che, ognuna a suo modo, combattono per sfuggire alle proprie violente, traumatiche esperienze di vita. Anche sceneggiatore, non risolve però perfettamente la costruzione parallela delle vicende dei tre personaggi, le loro connessioni, al centro delle quali c’è il personaggio di Irina, la prostituta russa che cerca disperatamente di sottrarsi al suo destino fuggendo in Canada. Si resta con l’esigenza di un racconto più ampio, più disteso, che renda la complessità della psicologia dei personaggi, delle loro reazioni emotive agli eventi drammatici che li coinvolgono. Una sintesi che l’autore ha tentato di operare attraverso le immagini immerse in una plumbea oscurità, e con uno stile cinematografico rigoroso e a volte originale, quasi espressionista, che lascia però ancora alcune domande sospese.

Una giovane regista francese, Anna Novion, alla sua seconda prova, mette in scena una fondamentale relazione maschile, quella fra padre e figlio, in Rendez-vous in Kiruna (Rendez-vous in Kiruna). Un buon film classico, tradizionale, che ha messo d’accordo la giuria internazionale e ha vinto la Piramide d’Oro. A parte il sentimento e l’emozione sinceri che animano e percorrono tutto il film e il notevole apporto di un attore come Jean-pierre Darrousin, il film manca, però, di quell’originalità e di quell’invenzione linguistica che potremo attenderci da una giovane regista di talento, come Anna Novion promette di essere.

Per quanto riguarda la produzione araba presente nella selezione proposta, ricorderemo Death Triangle (Segoshai Marg), produzione Irak/Kurdistan, opera prima di Adrian Osman. L’autore ha avuto l’originale idea di affrontare il drammatico tema della fuga clandestina verso un’Europa libera e ricca attraverso i confini militarizzati utilizzando meccanismi e stile narrativi di un film di genere, a metà fra il thriller e l’horror. Un tentativo interessante che resta, però, nel luogo indefinito delle intenzioni inespresse, come smarrite anch’esse in quel terrorizzante tunnel che i fuggitivi devono attraversare.

E’ da sottolineare infine la preponderanza di protagoniste femminili, di ritratti intensi e sfaccettati di donne in quasi tutta la produzione araba che abbiamo visto, come nell’iraniano The private life of Mr. & Mrs. M (ZENDEGI-E KHOSOUSI-E AGHA VA KHANOM-E MIM), di Rouhollah Hejazi, o anche nel tunisino The Kingdom of Ants (Le royaume des fourmis), di Chawki Mejri, con le sue maschere da tragedia greca. Quasi un’eco dello slogan che risuona dalla folla di Tahrir Square, e che ricordo a memoria: gli islamisti dicono che la donna deve essere muta, noi diciamo che la voce della donna è la voce della rivoluzione.


di Patrizia Pistagnesi
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