Bukowsky: born into this (documentario)

Il film documentario di John Dullaghan, Bukowsky: born into this (Usa, 2003), uscito in prima italiana il 29 Novembre di quest’anno al Festival dei Popoli che si tiene a Firenze, aveva tutti i requisiti necessari per rivelarsi una semplice appendice biografica, un lavoro teso a rinsaldare il mito di uno scrittore già di culto, attraverso una fitta rete di interviste e testimonianze di conoscenti e amici (alcuni celebri come Sean Penn), editori, ammiratori e fan d’eccezione come Bono o Tom Waits, compagne di letto, di sbronze o di vita, oltre che, ovviamente, dello stesso Bukowsky.
Aperto l’album dei ricordi, sfogliatene le pagine intrise di crudeltà e beffe, di bassezze e di virtù, di squallore e di splendore, si sarebbe trattato più che altro di un approccio ‘di cornice’ che poco avrebbe avuto a che fare con i processi di scrittura, insomma una chicca per affezionatissimi e fan, tesa a celebrare il mito più che ad indagare il senso profondo dell’opera che sottende il successo stesso dell’autore. Ma, come si evince dal condizionale finora usato, le cose non sono andate affatto in questo modo. Il film è denso di significati per niente marginali o di superficie, al contrario Dullaghan, esplorando l’universo-Bukowsky in profondità, riesce a fornire preziosi contributi alla comprensione della sua scrittura e della sua opera. E tutto ciò grazie al fatto che tra la biografia dello scrittore e la sua opera, tra il suo modo di raccontarsi davanti alla macchina da presa e all’interno della scrittura c’è una perfetta corrispondenza, un richiamo continuo, al punto che i due piani, finzionale e reale, si pongono l’uno come lo specchio reversibile dell’altro ed agiscono reciprocamente e senza soluzione di continuità in una sorta di livello intermedio di indiscernibilità, in cui la vita s’identifica con l’opera e quest’ultima con la prima.
La scrittura di Bukowsky, semplice ed immediata per vocazione, mai ideologica o pretestuosa, mai sopra le righe, si rivela in realtà estremamente rigorosa. È necessaria una disciplina particolarmente severa per non cedere alla sublimazione o alla disfatta, alla consolazione o al totale abbandono, alla rinuncia; può trattarsi anche di una disciplina dell’eccesso, così nell’uso dell’alcool come in quello della macchina da scrivere… Bukowsky, un autore perennemente in fuga attraverso l’alcool, attraverso la scrittura, riesce a restare tenacemente ancorato all’esistenza, la sua, perennemente border-line. E non si tratta tanto di un paradosso o dell’efficace adesione ad un modello artistico-comportamentale, ma di una specifica cifra stilistica, di un processo creativo antinomico e tensionale che tiene sempre aperte le contraddizioni, rifiutando, ostinatamente, facili consolazioni intellettuali. In tal modo ciò che su tutto emerge è proprio la profonda umanità della sua scrittura, nel bene e nel male, nella tristezza e nella tenerezza, nella degenerazione e nella rigenerazione continue. Guardare il mondo dalle crepe della realtà, dai bassifondi dell’animo osservare il soggetto, l’individuo, il terribile ‘uomo medio’, comporta un lavoro instancabile di demistificazione, disincanto, destratificazione del reale nel quale Bukowsky che barcolla, eternamente ubriaco, perde i sensi, il controllo, s’infuria, rappresenta l’unico vero punto fermo. Certo il film non fornisce risposte, ma anche in questo sta la sua forza, nel fatto cioè di riuscire, a sua volta, a mantenere aperto tale rapporto tensionale; così la domanda che in qualche modo sottende il lavoro e che sembra risuonare per l’intera durata del film- chi è Bukowsky? Qual è il tipo d’uomo che si nasconde dietro l’autore maledetto?- non trova risposta. L’uno rimanda continuamente all’altro in una maniera tanto stingente che non è possibile né risolvere l’uno nell’altro, né mantenerli distinti, perché in quest’identificazione c’è e si manifesta tutta la visceralità delle contraddizioni, delle antinomie, dei forti e laceranti contrasti, mai meramente intellettuali, sempre all’insegna di una profonda umanità, dell’autore e del personaggio. Hanry, Charles, Hank, Buk, Bukowsky Jr, Chinaski, un’estrema frammentazione che non si disperde mai, nemmeno per un attimo, ma riconduce sempre ad una forte identità umana ed autoriale, un Bukowsky, solo uno, sempre lui, ma forse nessuno perché in sé centomila, l’uomo della strada, il barbone, l’ubriacone, il maggiore autore beat, l’ultimo vero avanguardista, un neorealista postmoderno, il nuovo Hemingway, o Miller, o Kerouac… Ma ancora una volta, niente di tutto questo: se una poesia è una città, Bukowsky è l’uomo dei bassifondi, dei vicoli ciechi, bar-fly, la cui perifericità, la cui marginalità, la cui asocialità, paradossalmente lo connotano come sguardo privilegiato sul mondo- e sulla condizione dell’essere umano nel mondo-, elemento critico centrale della modernità, americana e non. E poi, sornionamente: che non vi venga l’idea che io sono un poeta…
di Redazione