Body and soul: per una genealogia del cinema disturbante

l'amore molesto

l'amore molestoEsiste una linea “minore” del cinema italiano o, se si vuole, una poetica dello spazio reale e immaginario della provincia italiana che, originata dai Vitelloni (1953) di Federico Fellini, giunge alle conseguenze estreme con Il branco (1994) di Marco Risi, passando attraverso una pluralità di esperienze filmiche che rimandano, sia pur in forme diverse, all’asse tematico e teorico della noia-esistenza-paranoia, ad un universo concentrazionario, spesso romano-centrico, dove l’essere “sociale” si misura dialetticamente col proprio contrario.

un'altra vitaDel cosiddetto “vitellonismo”, inteso quasi come malattia infantile dell’homo italicus, c’è una forte traccia nell’intero arco storico del nostro cinema, almeno a partire dal neorealismo. Si viene lentamente consolidando una specie di weltanshauung italiana, basata sull’interscambialità del tema della solitudine e quello dell’amicizia virile, dello “scherzo” crudele e del pentimento, finanche dello spazio del bar e dell’automobile (intesa come “alcova meccanica” e al tempo stesso strumento di auto-affermazione) e di quello reale e immaginario degli orizzonti dischiusi, dispiegati.
La dimensione della città (Roma) si frantuma in una pluralità di microcosmi che rimandano ad un’idea di marginalità proletaria o di umanità piccolo borghese, le due classi sociali “nazionalpopolari”, fatta eccezione per il cinema di Visconti e di Antonioni, che hanno avuto maggior rilievo nel cinema italiano.
br> Ma è la malinconia, ossia quel segreto struggersi di fronte alla vacuità delle cose e dei gesti ripetitivi, il vero elemento nuovo o di “rottura”, almeno sul piano poetico, testuale, rispetto a quell’idea “stagnante” di realtà, che suggerisce in taluni casi il desiderio di ribellione individuale e di fuga (che nel caso del tragico protagonista di La fine della notte-1989 di Davide Ferrario non può che concludersi con la morte). Si pensi invece all’eros e al delitto come conseguenza estrema, quale elemento di rottura dell’equilibrio morale delle parti, in Ossessione (1942) di Luchino Visconti, dove lo stesso desiderio di fuga da una realtà oppressiva che è insieme geografica e intima, diviene imperativo categorico, al di là di ogni legge morale. E’ l’eros il vero elemento scatenante, strumento e insieme fine ultimo di questo dramma che è all’origine dell’idea stessa di modernità cinematografica identificabile con i temi dell’angoscia, del silenzio, dell’eros e della fuga, ma altresì con la ricerca di un linguaggio che possa rifletterne le segrete risonanze e le tensione interiori. Laddove non v’è questo raccordo segreto fra tensione morale e tensione linguistico-formale, si ha un cinema che invano cerca di farsi interprete di tale modernità, mai spingendo in fondo la propria analisi sull’uomo.

Film come La rimpatriata (1963) di Damiano Damiani e La notte brava (1959) di Mauro Bolognini, su sceneggiatura di Pasolini, hanno saputo rivelare le miserie dell’ambiente piccolo borghese, far cadere ogni illusione di libertà, senza tuttavia un’autentica coscienza di essa. Con il film di Marco Risi cade perfino la già sottile barriera tra la normalità e la paranoia, tra il lecito e l’illecito, la dolcezza e la brutalità assoluta; tuttavia in tali opere che nascono da una centralità urbana che in realtà è profondamente periferica, resta ancora viva la matrice provinciale, perciò profondamente italiana, dove la rappresentazione della realtà quasi mai diventa realismo poetico, linguaggio che s’impadronisce letteralmente di quella stessa realtà. In effetti il cinema italiano conserva, riflettendole nelle opere, una matrice culturale, e morale, finanche stilistica, identificandole nel genere della commedia. Si pensi al cinema di Mario Camerini, ad opere comeQuattro passi tra le nuvole (1942) di Alessandro Blasetti, per taluni versi anticipatrici della corrente neorealista e infine la stessa commedia neorealista dei Castellani, dei De Sica, dei De Santis, la cui matrice populista spesso si è confusa con il melò. Perfino i cosiddetti “itinerari di fuga” di un Gabriele Salvatores o la “resa generazionale degli umili” del dittico di Marco Risi, pur con risultati assai diversi, rientrano di fatto in tale prospettiva.

“Disturbante” è infine il cinema che comunque segna il passaggio della commedia realista al realismo poetico e drammatico, dallo stereotipo populista ad una “visione” più critica dell’uomo.
Se ne “La rimpatriata”, per taluni versi film anticipatore di molte delle scorribande notturne del cinema italiano contemporaneo, essa si velava di profonda malinconia e di senso assoluto di scacco, in opere più recenti come Un’altra vita (1992) di Carlo Mazzacurati quella medesima atmosfera opprimente e claustrofobica si trasforma in deriva urbana che ancora una volta richiede come catarsi la morte di uno dei personaggi principali. E’ la “commare secca” la vera compagna di queste piccole elegie dell’inutilità, del tradimento degli affetti, della sessualità pervertita. E’ un cinema dell’impotenza mostrata da un’intera cultura (qui leggibile in senso antropologico) ad uscire dalla angustia dei propri orizzonti.
Per altro verso vi è in nuce l’urgenza di un realismo critico che pur restando fedele agli stilemi della commedia, avvii quel processo di scardinamento delle certezze, dei luoghi comuni, di un cinema ripiegato drammaticamente su se stesso, che pur non raggiungendo mai la poesia tragica dell’Accattone pasoliniano, rimanda ad un’altra “corrente” parallela che possiamo definire “meridionalista” dei napoletani e dei siciliani, la sola che in un’ottica “disturbante” (per citare un termine usato con efficacia da Aurelio Grimaldi in un articolo del 1998) abbia saputo affrontare con sguardo pudico la dimensione quotidiana del dolore, della rabbia e del desiderio.
Dalla cosiddetta “periferia dell’impero”, testimone di emarginazione e di sottosviluppo, si irradia una poetica filmica basata sul dualismo corpo-anima (body and soul) sull’antinomia di realtà fisica e realtà metafisica (che poi sono i medesimi topoi dell’immaginario filmico), traducibile in un realismo poetico, inteso come costante etico-stilistica in opere tra loro diverse come Le buttane (1994) di Aurelio Grimaldi, L’amore molesto (1995) di Mario Martone o il film d’esordio di Salvatore Piscicelli Immacolata e Concetta. L’altra gelosia (1980). In essi ritroviamo la costante del corpo-cuore (Le buttane), del corpo della città-corpo della donna (L’amore molesto), della lingua “madre”, il dialetto napoletano o siciliano come linguaggio e insieme gesto che riflette il persistere di un’oralità non solamente linguistica, ma anche comportamentale.
In queste e in altre opere (ciascuna delle quali richiederebbe uno spazio privilegiato di analisi) l’eros diviene espressione “forte” di una diversità non condivisa, di una rabbia che diviene pulsione, desiderio e ripetizione di una gestualità divenuta rituale.

Nel cinema di Martone, come in quello di Capuano e di Grimaldi, c’è come un rifiuto programmatico della soggettività, dell’esperienza autobiografica, del “taccuino d’artista”, di questa poetica “minore” che chiamiamo confessione, in nome di una maggiore aderenza del linguaggio filmico alla natura fisica delle cose, di una fisicità così profonda da rivelare l’anima umana. Dal realismo critico al realismo poetico il passo è davvero breve. Dall’elegia degli umili e forti al tempo stesso di verghiana memoria (si vedano i memorabili silenzi de Il ladro di bambini di Gianni Amelio, dove ormai non vi è più nulla che possa essere comunicato attraverso la parola) agli interrogativi esistenziali pirandelliani, fino all’ethos pasoliniano, si irradia un itinerario filmico complesso in cui la tensione morale diventa linguaggio, la dimensione fisica (il microcosmo del corpo denudato e il macrocosmo della città ferita, tortuosa e insieme solare) diviene metafisica del corpo e del desiderio.

Su differenti latitudini periferiche si veda ad esempio l’umile grandezza di un’altra elegia dei semplici in Barnabo delle montagne (1994) di Mario Brenta, già allievo di Ermanno Olmi, dove i silenzi si dilatano in uno scenario naturale, solenne, che genera angoscia, in altra forma riconducibile al grigio teatro urbano di Un anima divisa in due (1993) di Silvio Soldini, dove l’incomprensione tra i sessi diventa incomprensione tra culture diverse e incompatibili, dove il silenzio e il rumore si sostituiscono alle parole divenute ormai inadeguate.
E’ un cinema che attraversa letteralmente l’uomo rivelandone al contempo la nudità più profonda e la più semplice verità. Quello stesso uomo, la cui condizione di continua attesa, speranza, frustrazione e angoscia continua a parlare una “lingua” minoritaria, pur tuttavia universale.
Testimoni di un’inquietudine squisitamente moderna la cui complessa geografia interiore è trasferita nelle pieghe del linguaggio filmico (che è innanzitutto dinamica e sintassi della percezione visiva), questi registi sperimentano l’ansia di una totalità aspra, dolorosa, ma umanissima, dialetticamente opposta, perciò complementare, allo spalancarsi del vuoto borghese e alla sua negazione totale sperimentata dal giovane epilettico de “I pugni in tasca” di Marco Bellocchio che di quel vuoto fu poeta ineffabile.


di Redazione
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