Berlinale 2013 – Orso d’oro alla carriera a Claude Lanzmann*
La Berlinale 2013 tributa un omaggio speciale alla carriera del documentarista Claude Lanzmann con una retrospettiva completa dei suoi lavori e la consegna di un Orso d’oro. Sugli schermi berlinesi si potranno così (ri)vedere: Pourquoi Israël(1973), Shoah (1985) in versione restaurata e digitalizzata,Tsahal (1994), Un vivant qui passe (1997), Sobibor, 14 octobre 1943, 16 heures (2001) e Le rapport Karski (2010). Inoltre, il regista parteciperà a un incontro con lo storico e critico del cinema Ulrich Gregor che si terrà il 13 febbraio alle 18 alla Deutsche Kinemathek.
Uomo dalle molteplici vite di combattente, giornalista, filosofo, scrittore, nel 2009 Lanzmann ha affidato le sue memorie all’ampio volume La lepre della Patagonia in cui la genesi dello sguardo e del pensiero dell’autore emerge dalle sue vicende biografiche. Nato nel 1925 a Parigi, Claude Lanzmann assistette da giovane resistente comunista alle brutalità di nazisti e polizia francese contro gli ebrei e, ebreo laico lui stesso, ha poi seguito con passione e partecipazione la vita di Israele dedicando il suo primo documentario proprio alle ragioni della nascita dello stato ebraico. Il regista concepì il film anche come risposta a chi riteneva le sue posizioni filo-israeliane inconciliabili con il fervente sostegno all’indipendenza algerina per cui si era battuto accanto a Sartre e de Beauvoir. Filosofo di formazione, Lanzmann ha lavorato per decenni alla rivista fondata da Sartre Les Temps Modernes e dal 1986 ne è il direttore.
Nel suo lavoro documentario possiamo distinguere due filoni distinti e intrecciati: Israele e la Shoah. Dopo Pourquoi Israël (1973), l’autore è tornato sullo stato ebraico con Tsahal (1994), lungometraggio in cui, attraverso circa sei ore di interviste, il racconto della vita nell’esercito e della questione della “riappropriazione della violenza da parte degli Ebrei” traccia uno spaccato delle dinamiche e delle contraddizioni della società israeliana nel suo insieme.
Il valore del lavoro di Lanzmann trascende i confini dell’ambito cinematografico. O meglio, attraverso il suo cinema, il regista-filosofo ha saputo interrogare radicalmente il rapporto tra immagine e realtà, elaborando un linguaggio documentario implacabilmente spinto oltre l’idea di rappresentazione e quindi capace di confrontarsi con l’irrappresentabile. Il suo lavoro sulla Shoah lo testimonia. Il monumentale Shoah (1985), la cui lavorazione durò oltre un decennio, evita di farsi simulacro della realtà storica permettendo al reale, ovvero a ciò che è al di là della storia e della storicizzazione, di imporsi nella sua cruda nudità.
Come sottolineato da Slavoj Žižek, infatti, Shoah di Claude Lanzmann è il paradigma di un cinema documentario del “reale” inteso non come forma di rappresentazione di una realtà sociale esterna alla finzione cinematografica ma formato linguisticamente per significare l’irrappresentabilità dell’olocausto. La presenza e l’intervento dello stesso Lanzmann in ciò che descrive attraverso le sue domande incalzanti e impietose a vittime, carnefici e astanti, la sua ricerca di tracce, indici, memorie sono la sostanza del suo cinema in cui, sempre per Žižek: “la trascendenza radicale del reale (porlo come irrappresentabile, irraggiungibile dalle nostre rappresentazioni) coincide con la sua immanenza radicale (il fatto che nel rapporto tra noi e il reale, non è chiara la distanza che dovrebbe separare il contenuto rappresentato e il soggetto che percepisce). Il soggetto è parte integrante del contenuto irrappresentabile che, perciò, resta irrappresentabile per via di questa eccessiva vicinanza”.
A partire dal materiale girato tra fine anni Settanta e inizio anni Ottanta durante la lavorazione diShoah, il regista ha poi realizzato altri preziosi lavori: Un vivant qui passe con la testimonianza dell’ufficiale medico svizzero Maurice Rossel che riuscì a visitare il campo di Aushwitz; Sobibor, 14 octobre 1943, 16 heures sulla rivolta nel campo di Sobibor e Le rapport Karski in cui Jan Karski, delegato del governo polacco in esilio, racconta la sua avventurosa visita al ghetto di Varsavia nel 1942 e a un campo vicino Lublino di cui riferì ai governi inglese e americano con un rapporto che non suscitò la reazione che avrebbe fermato la soluzione finale, cambiando così il corso della storia del Novecento.
*Per concessione della testata giornalistica Cultframe – Arti Visive
Si ringrazia Silvia Nugara
di Redazione