Avati & Buttafuoco: guai ai critici

Leggendo l’intervista di Pietrangelo Buttafuoco a Pupi Avati, pubblicata su Panorama del 17 settembre scorso (“Cari critici, prendetevi un anno sabbatico”), la prima idea è che i due non aspettassero altro: cogliere l’occasione del “fiasco” dei film italiani a Venezia per far quadrare qualche conto personale, sparare a zero sul cinema italiano e (ebbene sì) sulla critica cinematografica. Alla vigilia dell’uscita dell’ultimo film di Avati, Una sconfinata giovinezza, dedicato al tema dell’Alzheimer e dunque alla regressione infantile e alla dimenticanza, Buttafuoco decide di regalare un generoso elzeviro al regista emiliano, da lui definito “prezioso sciamano” da sempre al riparo di “comparaggi culturali” (a proposito di dimenticanze). Buttafuoco il film non lo ha ancora visto però ci mette lo stesso la mano sul fuoco, perche ha saputo che sul set alla fine di ogni ripresa l’intera troupe scoppiava in un applauso a scena aperta. Effettivamente una scena forte, al punto che Buttafuoco ne chiede conferma ad Avati, che, ancora incredulo, ammette: «Sì. Ha presente il tecnico con lo stuzzicadenti in bocca? Ecco, proprio quello l’ho visto asciugarsi le lacrime». Bella immagine: lo “stuzzicadenti in bocca” e il cuore in mano, gli uomini del cinema secondo Avati.

Ma presto la lingua batte sul dente che duole. La Mostra di Venezia è ormai archiviata, ma Avati e Buttafuoco non dimenticano e si accodano alle polemiche. Se la prendono con i direttori e le commissioni, ma in particolare con le “parrocchiette ideologiche” e, incredibilmente, pure con la critica, «una pletora di parassiti che si stanno portando via, con il loro dilettantismo, la cinematografia nazionale». Mah! Il ragionamento retorico è perfetto nella sua assurdità: la deriva cinematografica italiana che è sotto gli occhi di tutti non dipende da chi tiene la barra del sistema (il vertice della piramide) ma da quelli che sono tra i ricettori finali del processo, i critici, in effetti sempre più passivi ed impotenti. Nella sua analisi Avati è spietato e nostalgico. «Nel ’68 – dice – in Italia si facevano da 300 a 400 film e c’erano al massimo 25 critici a visionarli e a recensirli. Oggi l’Italia sfornerà al massimo 70 titoli e c’è un esercito sterminato di critici in poltrona a fare da controcanto vacuo a questa miseria creativa». Ovvero la crisi quantitativa e qualitativa del cinema italiano non dipende dai provvedimenti legislativi insufficienti, dai ritardi e dalle miopie dei politici, dai tagli indiscriminati alla cultura e al cinema, ma dal vaniloquio dei “critici in poltrona”, sempre di sinistra, chiusi nel loro conformismo ideologico, a difesa del loro potere (ma quale? quando? dove?).

Infine Buttafuoco si traveste lui da critico cinematografico e prende in mano la questione. Ammira il fatto che molti attori “cari alla parrocchietta” (gli Albanese, i Marcorè, gli Orlando), vengano magnificamente utilizzati da Avati, che li «depura da ogni crosta ideologica per restituirli alla loro maschera sublime, eppure quei film non riescono a scalfire il muro del conformismo dei critici».    Ma non basta. «A differenza di Pier Paolo Pasolini, che prendeva Totò e lo massacrava facendogli fare Uccellacci e uccellini». E qui il cerchio alla fine si chiude: per incensare Avati si insolentisce Pasolini, che davvero con quel cinema e quell’autore ha pochissimo da spartire. Occorre però precisare che Pasolini ha usato Totò non solo per Uccellacci e uccellini (effettivamente film troppo “anomalo” per intellettuali dai gusti forti come Buttafuoco) ma in altre due occasioni: La terra vista dalla luna e il davvero sublime Che cosa sono le nuvole, dove accanto a Totò, recitavano anche Franchi e Ingrassia, e Domenico Modugno. Perché utilizzare la comicità più popolare e popolaresca era tra i requisiti linguistici ed estetici più tipici (e originali) del cinema di Pasolini. Ma queste, ci rendiamo conto, sono sottigliezze da critici ideologizzati, messe a punto conformistiche e masturbatorie. C’è da dire però che all’ultima considerazione di Buttafuoco su Pasolini, Avati, scrive l’intervistatore «taceva, e chissà se acconsentiva». Noi vogliamo sperare che taceva perché si vergognava.


di Piero Spila
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