Anacronismo della critica
Gianluca Pulsoni commenta "Werner Herzog – L’anacronismo delle immagini", il libro di Daniele Dottorini.

I
Werner Herzog – L’anacronismo delle immagini (Pellegrini Editore, 2022) di Daniele Dottorini è un bel libro per due motivi: per l’approccio scelto nello studio dell’opera del noto cineasta tedesco; per quello che implicitamente ci dice su come fare critica.
Sul primo punto, molto è già evocato dal titolo. Dottorini sceglie di analizzare il cinema di Herzog attraverso una tavola di concetti e gesti (potremmo anche dire: concetti dinamici e gesti concettuali) basata sul lavoro teorico di Aby Warburg, il grande storico dell’arte tedesco che fu capace di ripensare la storia dell’arte – nella relazione tra estetica, storia, e memoria – come mappatura di varianti e invarianti diacroniche di determinate costanti visive. La scelta di questo tipo di approccio, se all’apparenza “strana” (lo ricorda lo stesso Dottorini nel primo capitolo, soffermandosi sul fatto che Warburg spesso si accompagna ad altri tipi di cineasti, quelli che lavorano sulla temporalità e l’archivio), risulta alla lunga sensata e proficua in quanto focalizzata sulle varie implicazioni dell’idea di movimento, tanto in Herzog quanto in Warburg. Nello specifico:
una dinamizzazione costante delle forme filmiche, un uso del montaggio che comunque accosta tra loro in modi del tutto peculiari elementi tra loro eterogenei, una capacità di ripresentare, invertire e trasformare immagini e concetti provenienti dal bagaglio dell’arte e della letteratura occidentale; la presenza costante di figure che condensano costantemente innumerevoli altre immagini; la necessità di mantenere una dinamica aperta tra una visione magica del mondo e un approccio logico-razionale. Soprattutto, una costante ricerca della potenza dell’immagine, che ha a che fare, come vedremo, sia in Warburg sia in Herzog, con la sua potenza temporale [1].
Il parallelo tra Herzog e Warburg funziona poi per un’altra affinità, magari banale ma nemmeno troppo: il legame intrinseco tra viaggio e mappatura. Che Herzog sia, fra le tante cose, un cineasta-viaggiatore questa è cosa risaputa. Ma che cos’è in fondo l’atto di viaggiare, se assunto come modo di vedere continuo – e anche di vivere – se non un esercizio che, nei suoi sconfinamenti, mira a ridefinire ogni volta i confini di un territorio e quindi la sua mappatura? E parlare di mappature non può non far pensare ad un termine chiave nel linguaggio di Warburg, cioè all’atlante. E quindi al suo progetto incompiuto dell’Atlante Mnemosyne.
II
Nella sua forma “classica” – in fondo, si tratterebbe pur sempre di una monografia – e nel suo uso di uno apparato concettuale “altro” – il pensiero di Warburg –, il libro di Dottorini riesce a far percepire al lettore un’immagine complessiva del cinema di Herzog al tempo stesso disarticolata in punti chiave e di gran lunga non coincidente con l’idea che sia riconducibile alla sola somma dei film realizzati dal cineasta tedesco. Come chiamare questa impressione? Le opzioni potrebbero essere diverse, magari riferendosi alla parola “archivio” come punto di riferimento. Ma al di là della scelta lessicale, quello che conta, qui, è sottolineare come questo doppio movimento di scomposizione e ricomposizione su altri livelli sia qualcosa paradossalmente in linea con un certo modo di studiare le immagini in movimento da media studies, senza però sacrificare “il piacere del testo” all’altare di priorità che spesso non hanno nulla a che fare con le questioni riconducibili alla creazione.
Spostando invece l’attenzione ai concetti esposti nel libro, se ne trovano di alcuni che sembrano poter essere utili anche per un loro possibile riuso in altri contesti, siano essi legati a studi delle opere di altri cineasti, oppure in relazioni ad approcci su temi diversi.
Fra questi concetti, uno dei più proficui sembra quello di orientamento che, nel passaggio da Warburg a Herzog, non perderebbe nulla della sua potenza. Anzi. Se c’è qualcosa da dire, è che il cinema del regista tedesco, in un certo senso, almeno secondo Dottorini, esaspera l’importanza dell’orientamento anche grazie al suo contrasto brutale con momenti di disorientamento [2], cosa che nelle pagine dello storico dell’arte tedesco è presente ma non in modo così marcato.
Sul piano generale, parlare di orientamento in chiave teorica diventerebbe parlare di una modalità di movimento che cattura corpi, idee, indizi riferibili a temporalità diverse in qualità di elementi che attraversano, fanno e disfanno le immagini di determinate sequenze. Se si vuole, lo si può pensare come un concetto molto più ficcante – perché dinamico – di quello di “punto di vista”, quantomeno nella funzione di rappresentazione delle intenzioni di un determinato autore o di una determinata autrice x, attraverso l’opera y, sul mondo z.
III
Come anticipato, il libro può anche funzionare a mo’ di esempio di come rinnovare un determinato approccio nel fare critica: nello specifico, quello monografico.
In buona sostanza, lo si potrebbe esemplificare in questi termini: uno studio attraverso un altro studio. Invece di essere diretto e frontale, Dottorini decide di “complicare” le cose scegliendo di leggere i film di Herzog attraverso una mediazione, cioè una propria lettura di certi elementi del pensiero di Warburg. Questo fa si che l’analisi, oltre a far emergere tratti originali, sia un discorso critico senza essere un discorso di maniera. Non è la prima volta che si trova Warburg in studi su autori cinematografici, chiaro. Tuttavia è la prima volta, almeno in Italia, che c’è un parallelo dettagliato sui due tedeschi. Al riguardo, si può pensare all’uso del pensiero dello storico dell’arte come al tentativo di mettere in relazione determinati film – cioè il cinema di Herzog – con qualcosa che non è cinema. Tale approccio ha come effetto quello di ampliare il raggio d’azione dei film di cui si tratta, concependoli in dialogo con riferimenti esterni, e quindi come testi culturali che rispondono a determinate questioni o suggestioni, al di là delle specificità legate al linguaggio e agli studi nell’ambito.
Tutto questo lo si può dire altrimenti. Si può e si deve continuare a studiare/usare la grande letteratura sul cinema dei Bazin, Deleuze, Aprà etc., ma il rinnovamento della critica può anche essere profondamente anacronistico, attraverso tentativi che mettano in relazione film e autori cinematografici con esperienze altre e passate, così da insistere non tanto su cosa un film sia o dica ma su cosa possa fare, una volta svestito della sua testualità e slegato dalla contemporaneità come contingenza. In un certo senso, niente di nuovo: la si può considerare una lezione “vecchia”. Che però, come questo suo lavoro di Dottorini su Herzog suggerisce, vale la pena riprendere e far propria.
[1] Daniele Dottorini, Werner Herzog – L’anacronismo delle immagini, Pellegrini Editore, Cosenza 2022, p. 19.
[2] Al riguardo, si pensi ad Aguirre, furore di Dio, il film di Herzog uscito nel 1972.
di Gianluca Pulsoni