6° Festival Internazionale del Film di Roma
Si è conclusa la sesta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma e il Marco Aurelio d’Oro per il miglior film è stato assegnato al lungometraggio argentino Un cuento chino, firmato dal cineasta sudamericano Sebastian Borensztein.
Come ovvio i verdetti espressi dalle giurie possono essere criticati, così non possiamo evitare di dire che a nostra parere il lavoro più meritevole di tutto il concorso era Une vie meilleure di Cédric Khan, opera che ha consentito al suo protagonista, Guillame Canet, di aggiudicarsi il riconoscimento per la miglior interpretazione maschile.
Ma il dato fondamentale che vorremmo evidenziare riguarda la sostanza generale della competizione per il Marco Aurelio d’Oro. Appare evidente come il concorso sia, nell’ambito di questo festival, la sezione di gran lunga in maggiore sofferenza. Il livello medio è infatti palesemente inferiore a quello di Cannes, Venezia, Berlino ma anche di Locarno e Torino.
Quello della selezione competitiva non è però un problema nuovo, anzi si tratta di una questione che si trascina fin dalla prima edizione e che probabilmente è irrisolvibile.
Fin da quando la sua definizione era Festa del Cinema (prima dell’era Rondi), questa manifestazione ha sofferto della sua collocazione temporale. Voler essere, in Italia, un Festival di tipo generalista (e con ambizioni sia riguardanti il cinema d’autore che il mondo del glamour) situato tra Venezia e Torino (e dopo Cannes e Locarno), ha generato un progressivo disagio per quel che riguarda il reperimento di opere che potessero dare lustro alla manifestazione. Quest’anno, oltretutto, si è anche aggiunto un certo abbassamento del livello del glamour (hollywoodiano) che di certo non ha fatto bene al Festival Internazionale di Roma, che pur migliorando i numeri dal punto di vista degli incassi e dei biglietti venduti (e ciò in ogni caso rappresenta un fattore positivo), non riesce a trovare, a nostro avviso, una sua dimensione precisa.
La sensazione che abbiamo, avendo costantemente visistato gli spazi dell’Auditorium di Roma durante la sesta edizione, è che pur avendo cambiato (alcune edizioni fa) denominazione la manifestazione diretta da Piera Detassis sia sostanzialmente rimasta una Festa. E forse proprio quest’ultima potrebbe essere la vera profonda identità di un evento che di fatto, nonostante la presenza dell’interessante sezione Extra, poco incide sulla ricerca delle tendenza cinematografiche autoriali dei nostri tempi.
Anche il cinema italiano purtroppo rientra in questo vortice di sofferenza. Nel concorso infatti erano presenti ben quattro film di casa nostra (Il mio domani di Marina Spada, La kryptonite nella borsa di Ivan Cotroneo, Il cuore grande delle ragazze di Pupi Avati e Il paese delle spose infelici di Pippo Mezzapesa). Nessuno di questi lungometraggi è stato preso in considerazione dalla giuria. Se riflettiamo sul fatto che il livello del concorso non era poi così alto non rimane altro da fare che prendere atto della “sconfitta” della nostra cinematografia (almeno per quel che riguarda gli esisti scaturiti da questa edizione del festival romano).
Il Festival Internazionale del Film di Roma in sostanza, pur rimanendo un appuntamento fisso della vita culturale della capitale, può essere considerato ancora come un evento dall’identità non chiara. Forse sarebbero necessari dei cambiamenti precisi e decisi, delle autentiche svolte, per dare a questa inziativa la forza programmatica e culturale che meriterebbe.
di Maurizio G. De Bonis