Intervista a Mario Martone

Estratto dell’intervista che Piero Spila e Bruno Torri hanno realizzato con Mario Martone. La versione integrale dell’intervista con  il regista napoletano sarà pubblicata sul n.60 di CineCritica (versione cartacea)

A dispetto di pessimismi e timidezze ingiustificabili da parte dei distributori, Noi credevamo ha ottenuto un grande successo di pubblico. Che impressione ti ha fatto?

La risposta positiva del pubblico per me è stata come la chiusura di un cerchio. All’inizio, già nel 2004, appena ho cominciato a pensare al film in maniera concreta usavo un’espressione per definirlo che allora sembrava una formula un po’ astratta: doveva essere un film radicale e popolare. Radicale per il tema, le scelte stilistiche, il rispetto rigoroso della verità storica, ma anche popolare per il tipo di rapporto che intendevo instaurare con il pubblico. Oggi, vedendo i risultati, sono molto soddisfatto e mi sembra che si stiano raccogliendo i frutti di un lungo lavoro.

La prima domanda sul film è quasi obbligatoria e riguarda quanto in esso sia filologicamente esatto in senso storico e quanto ci sia invece di inventato. Per esempio penso alla battuta che Angelo dice al prete nel momento in cui sta per salire sul patibolo: “Perché la Chiesa non rinuncia al potere temporale?”. E’ una battuta inattesa e anche geniale, pronunciata dal personaggio più invasato, al limite un terrorista, che sul punto di morire, invece di pensare al suo destino, si preoccupa del comportamento della Chiesa, quasi si aspettasse ancora un qualche atto rivoluzionario. Si tratta di una frase documentata o inventata?

Incredibile a dirsi ma quella battuta si trova nel resoconto dell’esecuzione capitale di Giuseppe Andrea Pieri, a cui il personaggio di Angelo si ispira, e dunque l’abbiamo trovata nei documenti storici. Però questa domanda è utile per capire il metodo seguito nella realizzazione di Noi credevamo. L’idea portante era di fare un film solo con i materiali della storia, e che i personaggi, le situazioni, persino i dialoghi partissero sempre da lì. Poi, naturalmente, con De Cataldo abbiamo tirato dei fili, fatto degli accostamenti, delle sintesi, ma è sempre la storia a fornire il materiale narrativo di base.  Quindi la battuta di Angelo è vera, come sono vere le frasi pronunciate da altri personaggi del film; il punto è come quelle battute vengono dette e soprattutto perché. Abbiamo lavorato molto nella costruzione e nell’approfondimento dei caratteri dei vari personaggi, per farli agire in un determinato modo, e quindi per portarli a pronunciare quelle battute in una maniera credibile e significativa. Anche nella scena del processo, Angelo, nella sua deposizione, pronuncia un monologo che può sembrare illogico, quasi allucinato, quando parla di una luce biancastra che lo ha attirato e che vedeva aumentare man mano che si avvicinava ai boulevards. Il suo è una sorta di delirio, che può apparire un po’ letterario ma che pure fa parte dei verbali del processo ed è fondamentale per capire l’esaltazione e la buonafede del personaggio. A me quel pezzo è sempre sembrato straordinario e l’ho mantenuto in sceneggiatura malgrado il parere di molti che quando leggevano il copione consigliavano di toglierlo perché lo ritenevano superfluo. Non ero d’accordo e ho resistito, dicevo lasciatemi girare la scena così come è scritta, al massimo ci metterò mezza giornata e al peggio avremo buttato via qualche ora di lavoro. Alla fine la scena è presente nel film e credo sia importante per capire il personaggio e la situazione.

Angelo è tra tutti i personaggi del film certamente quello più acceso, è un esaltato, un “demone” con una evidente derivazione dostoewskiana. Nella sua costruzione quanto ha contribuito l’apporto dell’attore?

Ho pensato e scritto il personaggio pensando sin dall’inizio a Valerio Binasco, che ha un tipo di recitazione molto intensa, acre, capace di far emergere anche un certo tipo di sgradevolezza. Ma lo stesso è capitato per il personaggio di Domenico interpretato da Luigi Lo Cascio, un attore che mi piace molto anche come persona, dotato di un rigore particolare, che definirei dolce. E il rigore e la dolcezza sono le qualità che definiscono meglio il suo personaggio, così come viene descritto nel romanzo omonimo della Banti. Domenico è un uomo dal carattere chiuso, ostinato, che può anche essere durissimo, però educato. Mi ha ricordato quando, con Franco Citti, parlavamo di Pasolini, e lui per descriverlo diceva che era un uomo educato. L’educazione, la gentilezza, erano cose che in effetti Pasolini trasmetteva, per come si rivolgeva ai suoi interlocutori anche quando diceva loro cose intransigenti e molto dure. Questo tratto gentile in figure così ostinatamente resistenti mi ha molto colpito, forse perché il rigore e la gentilezza formano una miscela poco italiana, abbastanza inusuale nel nostro paese. In questo senso i due protagonisti, Domenico e Angelo, rappresentano due tonalità opposte che caratterizzano l’intero film.

Binasco e Lo Cascio come attori sono stati presenti sin dall’inizio del progetto?

Sì, e hanno resistito a tutti gli sconquassi subiti dal film nel corso di una preparazione durata più di quattro anni. Per me è stato fondamentale averli accanto, perché come metodo di lavoro preferisco costruire il personaggio su un attore piuttosto che lavorare in astratto, per poi magari chiedere all’attore di adeguarsi ad esso. E’ come scegliere i colori da mettere su una tavolozza prima di cominciare a dipingere. Non è solo questione di volti e di corpi, è un fatto più interiore, di recitazione e condivisione.

Il film ha una miriade di personaggi e un cast di attori ricchissimo. Era tutto previsto in sceneggiatura?

No, in Noi credevamo ci sono personaggi che non erano previsti e che sono stati inventati in corso d’opera. Ad esempio l’uomo del cardillo è un personaggio costruito proprio sulle spalle di Roberto De Francesco. In quel momento, durante il viaggio in carrozza, mi piaceva che ci fosse un personaggio che in qualche modo richiamasse Anna Maria Ortese e il suo Cardillo innamorato e che portasse all’interno del film un certo disincanto, una visione antiilluminista, più legata alla natura. Volevo insomma un altro punto di vista, senza però fare ricorso alla caratterizzazione di un filoborbonico, una cosa banale che non mi interessava, e quindi ho pensato ad un personaggio che avesse una posizione diversa, comunque rispettabile, da quella dei rivoluzionari visti fino a quel momento.


di Piero Spila Bruno Torri
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