26. Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina – Milano

Una nuova prospettiva per il continente africano
Designing Futures è il titolo – preso in prestito dal Lagos Photo Festival uno tra i più importanti festival della fotografia e della arti visuali in Africa – scelto per la edizione n. 26 del Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina che si svolge sino a domenica in diversi luoghi di Milano. Dal Lagos Photo Festival e grazie alla African Artists’ Foundation giunge del resto – ricompresa anche tra gli eventi della XXI Triennale “21st Century. Design After Design” appena inaugurata – anche la mostra fotografica “Designing Africa 3.0”: oltre 60 foto ma anche video e installazioni di artisti africani, esposte per la prima volta in Italia al Festival Center di Porta Venezia, che ospita anche gli incontri quotidiani con i registi e i testimoni.
Sebbene il festival apra ormai da parecchi anni le sue finestre anche al mondo asiatico e latinoamericano, il suo baricentro resta l’Africa e i suoi diversi immaginari. Ma è certamente un’altra e più nuova prospettiva – giovane, creativa, metropolitana, per certi versi anche “affluent” e legata a circuiti internazionali – quella a cui il festival invita per riconsiderare, al di là di pregiudizi e stereotipi secolari, l’immenso continente africano, le sue tendenze, i problemi, le contraddizioni. Contraddizioni che il cinema, muovendosi agilmente tra finzione e reale, interpreta come sempre puntualmente, anche su un versante più specificamente politico.
Così, “Designing Futures” è anche il titolo di una sezione tematica e trasversale al cartellone che presenta in anteprima italiana film che riflettono i movimenti rivoluzionari, sociali e artistici dell’Africa contemporanea ed esprimono la voce di nuove generazioni di filmmaker metropolitani nati in Africa ma cresciuti nel mondo. Registi “meticci” ma che al tempo stesso rivendicano la propria identità. E’ il caso della giovane Leyla Bouzid, figlia del grande regista tunisino Nouri Bouzid, formatasi in Francia, che con A peine j’ouvre les yeux (il film era alle ‘Giornate degli Autori’ a Venezia 2015) ambienta nella immediata vigilia della rivoluzione tunisina la storia della giovane Farah cantante in una band underground i cui testi denunciano le condizioni di povertà e ingiustizia del Paese e la corruzione del regime di Ben Ali. Farah dovrà confrontarsi con il rifiuto da parte del contesto sociale, con l’opposizione, sia pure ambivalente, della madre, infine con la violenza del regime. Il film ha, fortunatamente, anche una distribuzione italiana (grazie a Cineclub Internazionale) e sarà in sala dal 28 aprile con il titolo di “Appena apro gli occhi. Canto per la libertà”.
Dalla Tunisia al Sudafrica. Rivoluzioni dimenticate, tradite, sconosciute.
Se quella tunisina, pur avendo dato il via alle cosidette “primavere arabe” è una rivoluzione oggi dimenticata, altre rivoluzioni e altri fermenti sono stati assai poco captati dai media globali. Il cinema, ancora una volta, sa colmare questa lacuna e crea la sua informazione e “pubblica opinione”.
In quest’ottica, dice già tutto il titolo del film della regista (classe 1978), Rama Tiaw, che ha studiato economia e cinema a Parigi. The Revolution Won’t Be Televised, racconta la ribellione della gioventù senegalese contro il vecchio presidente Wade. La regista si unisce agli studenti e al loro movimento “Y’en a marre” (Non ne possiamo più) e documenta, successi e sconfitte di un movimento di protesta giovanile che è stato giudicato l’”ago della bilancia” nelle ultime elezioni senegalesi.
Dal canto suo Une révolution africaine (Les dix jours qui ont fait chuter Blaise Compaoré) ci porta in Burkina Faso (paese il cui nome nella lingua locale sta per “la terra degli uomini integri” e che negli anni ’80 vide nascere l’utopia rivoluzionaria di Thomas Sankara). Gidéon Vink, regista di origine olandese, ma che vive da tempo in Burkina, firma insieme al giovane filmmaker burkinabè Boubacar Sangaré un film vibrante che, ancora una volta dall’interno, racconta la massiccia ondata di proteste (culminata anche nell’assalto dei palazzi del potere) contro il regime (lungo 27 anni e nato proprio dal sanguinoso tradimento di Sankara) del presidente-dittatore Blaise Compaoré che nel 2014 cercò di modificare la costituzione per restare ancora al comando, ma fu costretto alle dimissioni e all’esilio.
Una rivoluzione che, al di là del mito di Nelson Mandela, è rimasta forse incompiuta è quella sudafricana. Opening Stellenbosch: From Assimilation To Occupation, di Aryan Kaganof (classe 1964, film maker ma anche romanziere e poeta) testimonia la rabbia della nuova generazione di studenti che nel 2015 fa tremare le università del Sudafrica. Gli studenti della Stellenbosch University formano il collettivo Open Stellenbosch che ha l’obiettivo di spazzare via tutti gli ultimi segni evidenti di apartheid nel loro campus universitario. Il film indaga dietro le quinte dei dibattiti e dei processi decisionali: un passaggio obbligatorio per capire non solo la rivolta studentesca ma anche la società sudafricana di oggi.
Chiude la sezione Black President, di Mpumelelo Mcata, una coproduzione tra Zimbabwe, Sudafrica e Gran Bretagna che pone questioni ancora più profonde e cruciali indagando il “senso di colpa black”. Protagonista e interprete è l’artista Kudzanai Chiurai, nato nello Zimbabwe, che si interroga criticamente sul perché, in un universo sempre più globalizzato, gli artisti africani “rincorrano” l’immaginario dell’Occidente invece di seguire percorsi autonomi.
Tutti i dettagli sul programma e sugli ospiti:
www.festivalcinemaafricano.org.
di Redazione