11/09/2001, tra immaginazione e memoria

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11092001Pubblichiamo un estratto dell’articolo già presente nella versione cartacea di CineCritica (aprile-settembre 2007)

…A differenza della fotografia, che ha già generato una discreta, anche se non compiuta, produzione visiva, il cinema a distanza di quasi sei anni dagli accadimenti si trova ancora in una situazione di sostanziale ricerca dell’inizio di un percorso di rielaborazione che probabilmente avrà bisogno ancora di altro tempo per identificare l’esatta direzione da percorrere. Il fatto è che il cinema ha meccanismi, industriali e distributivi molto più complessi rispetto a quelli della fotografia contemporanea, che invece affonda le sue radici in una dimensione individualistica che facilita notevolmente la pratica creativa e che ha avuto un impulso iniziale in relazione all’esigenza informativa che nelle settimane successive all’attentato era comprensibilmente pressante. Inoltre, il cinema ha un impatto sociale immensamente più travolgente e esteso nel tempo, dunque appare del tutto scontato che per metabolizzare una simile tragedia sia necessaria una sostanziosa sedimentazione temporale. Fatte le debite differenze, è un po’ ciò che è successo con la Shoah, tragedia incommensurabile del XX secolo, e forse non rappresentabile nelle arti, che è entrata nell’immaginario cinematografico con grande difficoltà, fino a trovare un suo ampio collocamento nel panorama internazione negli ultimi dieci anni (dopo cinque decenni di sostanziale silenzio), secondo modalità addirittura scomposte (ma questa è un’altra storia).
Analizzando il movimento cinematografico tra 2001 il 2007, ed eliminando dalla nostra analisi tutto ciò che riguarda la documentazione “paratelevisiva” e di denuncia di stampo strettamente ideologico, la nostra attenzione non può che concentrarsi esclusivamente su quattro titoli: Fahreneheit 9/11 di Michael Moore, 11 settembre 2001, film a episodi firmati da undici diversi registi, United 93 di Paul Greengrass e World Trade Center di Oliver Stone.

Si tratta di pellicole molto differenti tra loro, realizzate per raggiungere obiettivi non convergenti e in base a metodiche decisamente non accostabili. Sono in ogni caso i soli quattro titoli in cui il tema dell’attentato alle Twin Towers è stato affrontato con la lucida intenzione di riflettere attraverso il linguaggio audiovisivo sul terribile attentato e in qualche caso di innescare un dibattito pubblico.
Dei quattro lavori, quello che certamente ha fatto più scalpore, avendo per tale motivo maggiore diffusione e notorietà, è stato senza dubbio il documentario firmato da Michael Moore. Il film si è addirittura aggiudicato la Palma d’oro alla 57° edizione del Festival di Cannes. A distanza di qualche anno possiamo sostenere come la giuria, sull’onda delle tensioni e delle emozioni, sopravvalutò incredibilmente quest’opera e come Moore seppe abilmente cavalcare la protesta (progressista) dell’opinione pubblica (mondiale) nei confronti del comportamento politico di George Bush. Anche la critica (compreso chi scrive) è probabilmente corresponsabile di questa sopravvalutazione che ha fatto divenire il film di Moore una sorta di specchio della realtà portatore di verità assolute. La questione centrale riguardante Fahreneheit 9/11 è che l’opera in questione gioca in maniera spregiudicata con l’emotività (e l’indignazione) dello spettatore utilizzando meccanismi narrativi e stilemi che poco hanno a che fare con il linguaggio della narrazione cinematografica. Lo stile di Moore è infatti palesemente televisivo; il suo è un classico (e già ben sperimentato) reportage d’assalto, un’inchiesta giornalistica più che un documentario filmico. Il suo atteggiamento aggressivo e debordante diventa in un contesto del genere elemento portante dell’architettura visivo/narrativa. La sua immagine si antepone all’oggetto del racconto, anzi diviene fulcro dell’opera, evidenziando una sorta di narcisismo neanche tanto mascherato che produce quella che potrebbe essere definita un’informazione in stile “Iene”. Moore ha un obiettivo preciso e costruisce con sapiente abilità il puzzle che lo porta a edificare un ritratto inquietante degli USA e dell’operato della famiglia Bush, nonché a illuminare preoccupanti meccanismi economici “clandestini” che avrebbero favorito il realizzarsi degli attentati del 2001.
Come già affermato, il regista americano ha utilizzato più che altro il linguaggio della televisione; ed proprio per tale motivo che questo suo lavoro è riuscito anche negli Stati Uniti ad ottenere un risultato al box office assolutamente impensabile e gratificante. Letto in questo modo, dunque, Fahreneheit 9/11 possiede tutte le caratteristiche di un’operazione mirata e di marketing, peraltro perfettamente riuscita e di innegabile qualità. Eppure, nonostante quanto affermato, si tratta di un film che non può essere liquidato solo con una critica alle “intenzioni” di Moore; in fin dei conti l’autore americano si è trovato ad operare (e l’ha fatto con innegabile coraggio) in un territorio ostile, in una situazione estremamente difficile dal punto di vista sociale e politico. Ma scendiamo nel dettaglio.
Michael Moore, come sempre è crudele, cinico, sarcastico. Il suo è un documentario che si basa sostanzialmente sull’uso di materiale di repertorio e di incursioni dirette, il tutto montato con alta maestria e con senso del ritmo e della costruzione narrativa. I suoi interventi “in scena” e il materiale girato per l’occasione non rappresentano, però, i soli cardini fondamentali del film. Moore non ha infatti operato secondo i metodi classici della ricostruzione documentaristica cinematografica, ma ha lavorato come una specie di irriducibile (pignolo) riorganizzatore di sequenze precedentemente “censurate” dal sistema televisivo internazionale. Ha cioè dato forma, secondo un procedimento puramente giornalistico, a materiale confuso e disperso nell’universo dei media svelando una “verità” scioccante. Proprio quest’ultimo è il fattore fondamentale della pellicola, cioè la sua natura rivelatrice e di rottura nei confronti di una certa solidarietà filoamericana automatica, preconfezionata e densa di vuota retorica. In questo contesto espressivo si alternano situazioni di estrema brillantezza comunicativa e deviazioni imbarazzanti verso un sensazionalismo spettacolare di stampo televisivo. Certo, la scena che maggiormente risulta efficace, proprio sul piano della denuncia, è quella che riguarda direttamente l’annuncio che fu fatto a Bush dell’attentato. Sette lunghissimi interminabili minuti. Lo sguardo del Presidente degli USA avvolto in una nebbia metaforica: gli occhi piccolissimi, le labbra serrate, la salivazione azzerata. Il tutto davanti, un gruppo di bambini sorridenti: innocui allievi delle scuole elementari. Nella mente del Presidente, lo straniamento causato da una situazione che non riesce proprio a comprendere. I sette minuti sono quelli che intercorrono tra la comunicazione fatta a Bush, da un funzionario della sicurezza, del secondo impatto contro le Torri Gemelle e la decisione di portare il Presidente degli USA in un luogo protetto e segreto.
È proprio questo brano, il passaggio centrale e più significativo del documentario di Michael Moore. È, infatti una scena emblematica: l’uomo più potente del mondo rimane apparentemente impassibile (impietrito?) e totalmente incapace di ragionare, così come il mitico apparato della security made in USA fa passare, senza prendere nessuna decisione, un periodo di tempo che potrebbe essere fatale per la vita del numero 1 americano.
Fahreneith 9/11 è, nonostante le nostre riflessioni non del tutto positive, un documentario su cui bisognerà tornare nei prossimi tempi con maggiore distacco, una sorta di lezione, forse non condivisibile ma acuta, su come far apparire linguaggio televisivo e cinematografico identici agli occhi degli spettatori (i quali gli hanno tributato un grande successo internazionale). Moore è personaggio estremamente intelligente ed ha capito che avrebbe potuto giocare nel campo del cinema utilizzando le regole della televisione. Allo sguardo critico questo tipo di operazione non può che apparire confusionaria e negativa, risultato di una fase di involuzione dei linguaggi visuali. Da un altro punto di vista, invece, bisogna dare atto a Michael Moore di aver compreso immediatamente attraverso quali meccanismi di comunicazione avrebbe potuto raggiungere il maggior numero di persone nel mondo. Così, ha organizzato una macchina narrativa e visiva facilmente leggibile/interpretabile, scioccante, fruibile anche da chi non ha grande familiarità con il cinema.

Il progetto collettivo intitolato 11 settembre 2001 sembra invece concettualmente opposto a quello più “individualista” e giornalistico di Michael Moore. L’esigenza di fondo sembra propriamente di carattere espressivo, riflessivo, e l’idea di chiamare undici diversi registi provenienti da tutte le parti del mondo evidentemente aveva come scopo quello di smentire ogni impostazione ideologica precostituita, nel tentativo di trovare una strada in grado di esorcizzare l’orrore di Ground Zero.
Nelle note di produzione, Alain Brigand (produttore artistico del progetto) spiega molto precisamente l’intento le linee guida del film: “Per ricordare l’eco planetaria di quegli eventi, mi sono rapidamente reso conto, che invece di rivisitare quelle terribili immagini, era nostro dovere riflettere. Una riflessione non limitata al presente, ma proiettata verso il futuro, capace di portarci in diversi luoghi, di viaggiare. Una riflessione capace di rispondere con immagini alle immagini di allora”. Una riflessione cinematografica, dunque, allo scopo di andare oltre l’evento tragico in sé per ragionare sulla violenza e la follia umana. Scopo nobile, senza dubbio, ma probabilmente poco consono ad un’operazione produttiva che evidentemente mirava anche a generare un certo scalpore mediatico.
Nel complesso si tratta di un’operazione di rara confusione progettuale, nella quale sono stati connessi autori e stili inconciliabili. Questo mosaico non armonioso ha generato una sorta di corto circuito filmico che di fatto ha provocato il naufragio della pellicola. Undici corti di undici minuti cercano così di far emergere un panorama multiforme e senza un centro di collegamento in grado di dare un senso compiuto alla sequenza dei corti.
Tra le prove registiche che compongono l’operazione spicca senza dubbio quella firmata dal messicano Alejandro González Iñárritu, un piccolo capolavoro di sensibilità artistica e profondità visuale. Domina questo cortometraggio il nero, un nero profondo e assoluto che copre l’intera inquadratura e che determina nello spettatore una profonda sensazione di angoscia. L’abisso del non vedibile, del non decifrabile, è interrotto dal precipizio della morte. Il volo disperato e definitivo di coloro che scelgono di buttarsi nel vuoto piuttosto che finire arsi vivi dentro i loro uffici si manifesta così come la raffigurazione di una realtà che sfugge ad ogni umana comprensione. Intermittenze visivo/psichiche, che fanno sorgere dall’oscurità una tragica rassegnazione alla morte, squarciano l’angoscia del nulla. Gli assurdi “tuffi” verso terra di alcuni innocenti si trasformano in vere testimonianze umane, in gesti simbolici che evidenziano la scelta disperata di affermare la propria esistenza.
Quella di Alejandro González Iñárritu è una micro-opera dolorosissima basata su un’idea forte, rispettosa dell’immane sciagura che era chiamata ad evocare. All’opposto di questo episodio, dal punto di vista dello stile e della strutturazione narrativa, è da collocarsi quello diretto da Sean Penn, che invece punta tutto sulla compattezza del micro-racconto, sulla recitazione (non naturalistica) di Ernest Borgnine e sulla raffigurazione di uno spazio chiuso, claustrofobico, una piccola casa in cui un anziano convive drammaticamente con il ricordo della moglie morta come se vegetasse sospeso nel limbo di un sogno ad occhi aperti. Le Torri Gemelle costringono la piccola casa in una sorta di oscurità perenne che genera angoscia, comportamenti compulsavi, umorali, quasi autistici. La luce entrerà in questo seminterrato solo con il crollo delle torri in una sorta di testa-coda vita/morte dai tratti inquietanti.
Se ideologicamente il film di Penn sembra prendere una strada decisamente imbarazzante e pericolosa, non v’è alcuno dubbio che cinematograficamente il corto regga perfettamente e risponda a una concezione creativa per nulla improvvisata e prevedibile.
Gli episodi firmati da Mira Nair e Claude Lelouch rappresentano gli altri lati di una sorta di quadrilatero solido e stilisticamente valido (Gonzales Iñárritu, Penn, Nair, Lelouch) che è l’anima artistica del film. Mentre Mira Nair si concentra sulla condizione sociale e umana di immigrati pakistani negli USA che vivono la loro realtà in modo complesso e sempre dovendo confermare la loro lealtà nei confronti dell’America, in una continua opera di strutturazione di un’identità individuale e collettiva, Lelouch gioca la carta surreale del silenzio, la quiete di un mondo di sordi in cui l’unico contatto con la raffigurazione dell’evento è connessa alle immagini irradiate da una televisione muta, e dunque non comunicativa. La scelta di Leoluch, insieme a quella di González Iñárritu, sembra forse la più rispettosa e sensibile dell’intero parco di registi cooptati per queste produzione. È come se il regista francese avesse teoricamente fatto un passo indietro per lasciare al non detto (urlato) il compito di esplorare nelle coscienze degli spettatori. Degli altri cortometraggi c’è veramente poco da sottolineare (nulla per quel che riguarda quelli di Danis Tanovic e Shoei Imamura) se non che i più ideologici, e dunque i meno riusciti, sono quelli di Ken Loach e Youssef Chahine, entrambi prigionieri di una forma rigida che si configura più come una piattaforma politica piuttosto che come una riflessione sulla situazione venutasi a determinare dopo l’attentato. Infine, mentre il contributo di Samira Makhmalbaf sembra troppo concentrato a rispettare indirizzi stilistici personali, che prevalgono sulla comunque onesta impostazione narrativo/contenutistica del breve film, Amos Gitai impegna grandi energie registiche nella scelta forse prevedibile (per lui), e non molto innovativa, di affidare la sua riflessione filmica al piano sequenza. In questo caso, la vitalità espressiva e il dinamismo fine a se stesso originati dalla sostanziale assenza di montaggio finiscono per prevalere sul senso contenutistico del cortometraggio in questione. La raffigurazione dell’assurdo nell’ambito del teatro di un attentato terroristico in terra di Israele ideata da Amos Gitai diviene così algido e meccanicistico esercizio tecnico/stlistico autoreferenziale e dunque privo di valore concettuale.

United 93 di Paul Greengrass e World Trade Center di Oliver Stone sono opere che si pongono in dimensioni totalmente differenti e che rappresentano due diversi modi di affrontare l’argomento. Il primo connesso strettamente allo specifico cinematografico e ben attento a non scadere nella retorica dell’eroismo americano, il secondo totalmente appiattito su un’impostazione che intende consolare il cittadino USA facendogli vedere il coraggio del popolo americano che, sottoposto un’immensa tragedia, trova la forza per resistere e riprendere a vivere. Risulta assolutamente incomprensibile (se non per una sorta di imprevedibile e tarpante conversione politica) il motivo che ha portato un “autore contro” come Stone ad elaborare quello che può essere considerato un mero atto di amore verso il popolo americano, privo di qualsiasi spirito critico ed anche di quella forza registica che ha sempre caratterizzato le sue opere. Tanto United 93 è un film sintetico, secco, freddo e lucido, quanto World Trade Center si sviluppa attraverso una poetica di stampo hollywoodiano che arriva addirittura a sfiorare una certa idea nazionalistica non proprio adatta a innescare una vera riflessione sull’11 settembre 2001. United 93, prima che affrontare una vicenda della cronaca degli ultimi anni, è un film che racconta una storia attraverso la ricerca di una potente e vibrante scansione progressivo/narrativa. La progressione del racconto è affidata a un’alternanza di situazioni spazio-temporali che verso la conclusione convergono fino alla ribellione disperata dei passeggeri del volo, dirottato dai terroristi, destinato a distruggere la Casa Bianca.
Nel percorso della vicenda non emergono giudizi politici, visioni esistenziali o tendenze qualunquistiche ad esaltare atti di eroismo. Tutto è concentrato in una ripartizione del racconto molto tesa e frammentata: micro-sequenze che però rispettano tutte dei chiari criteri drammaturgici.
Greengrass seziona gli spazi e li riempie di volti, frasi, parole, dettagli fino a edificare un collage decisamente complesso che culmina in una risoluzione priva di speranza. Chiama dunque gli interpreti a sostenere l’impatto delle inquadrature, a mutare di intensità la loro recitazione man mano che l’epilogo si avvicina. Lo scopo di questa composizione a incastri è quello di accrescere la tensione fino a un picco che però corrisponde non con un punto di svolta ma con la caduta dell’ aereo, con il sacrificio dettato non tanto dalla volontà di evitare che il volo finisca contro la Casa Bianca ma dalla furibonda voglia di vivere e di salvarsi che prende i passeggeri.
Greengrass amplifica in maniera abile la sensazione di claustrofobia che sono costretti a vivere i passeggeri del volo “United 93”; ed anche la condizione di iniziale impotenza che li coglie si trasforma, in una fase successiva, in una “impossibile” azione di forza per prendere il controllo dell’aereo. Il regista elabora una griglia rigorosa e attenta al ritmo e non cade nella tentazione di arricchire la storia con notazioni di carattere ideologico (meno che mai psicologico).
L’elemento di critica si rivolge soprattutto all’inettitudine degli uomini preposti al servizio di sorveglianza aerea degli USA, i quali ritardano terribilmente a prendere decisioni e a comprendere quello che veramente sta succedendo nei cieli degli Stai Uniti d’America. Ne esce fuori un quadro amaro del sistema di vita americano, rappresentato come un immenso apparto burocratico-militare incapace di gestire le situazioni di pericolo e di reale attacco allo Stato. In questo contesto, i passeggeri del volo “United 93” sono fulgidi esempi di correttezza morale e umana.
Il film di Greengrass si basa, dunque, sulla contrapposizioni degli atteggiamenti e delle responsabilità e dirige l’attenzione non sulla retorica del coraggio individuale ma sulla forza positiva delle singole coscienze dei passeggeri del volo che quasi incredibilmente e inconsapevolmente finiscono per dare una straordinaria lezione civica agli incompetenti e inadeguati detentori del potere. Ancora prima di esser un lungometraggio che rievoca una delle tragedie innescate dell’azione terroristica dell’11 settembre 2001, è un’opera filmica che guarda al cinema e non alla rappresentazione della cronaca, che basa la sua forza del racconto (seppur ridotto all’osso) e non sui riflessi socio-politici che i soggetto del film riporta alla luce.

Nei confronti del film diretto da Paul Greengrass, World Trade Center appare invece di una banalità sconcertante, soprattutto se si prende in considerazione l’intera filmografia di un regista che mai aveva fatto sconti alle varie amministrazioni che si sono succedute nei decenni negli Stai Uniti d’America e che aveva sempre privilegiato una sorta di sacra e sbandierata indipendenza intellettuale/artistica nei confronti del potere. Vedere il regista che è sempre stato “contro”, e che ha utilizzato il linguaggio del cinema per portare avanti in maniera creativa vivaci battaglie socio-politiche, appiattirsi su posizioni convenzionali mette lo spettatore in una fastidiosa condizione di disagio. Stone fa tutto ciò che Greengrass ha evitato accuratamente. Spinge l’acceleratore sulla retorica filoamericana, addirittura prendendo una piega quasi mistica che non possiamo evitare di definire preoccupante. Decide, oltretutto, di compiere questa operazione prendendo come feticcio l’attore forse più scialbo del sistema hollywoodiano: Nicolas Cage.
La struttura del film poggia su due cardini essenziali: due personaggi in fondo molto simili anche se apparentemente lontani. Uno portatore di un venatura più umana, l’agente della Port Authority che rimane intrappolato sotto le macerie insieme a un collega, un altro che esprime invece un’idea di supremazia morale del cittadino americano sul resto dell’umanità: il marine che da solo si mette alla ricerca dei sopravvissuti. Bloccato in questa struttura nefasta, World Trade Center, è più un manifesto nazionalistico che una riflessione sul tragico attentato delle torri gemelli. È un film piatto, monocorde, che conduce lo spettatore verso una conclusione prevedibile, un lungometraggio senza reale respiro emotivo e senza uno stile in grado di far emergere il tocco di un autore che si sempre mostrato attento a non retrocedere rispetto a un’impostazione autonoma e libera del linguaggio filmico.
Alla fine ciò rimane di Wolrd Trade Center è solo una sensazione di pesante incompiutezza. Il cinema di Oliver Stone sembra compresso dentro un’architettura pesante, ridondante e stucchevole e proprio per questo motivo finisce per perdere totalmente la sua forza dirompente. Probabilmente il cineasta americano non trovando la chiave giusta per maneggiare una materia così difficile ha preferito concentrarsi su un’interpretazione della vicenda consolatoria, non problematica, aderendo senza condizioni a un sentimento diffuso indotto dalla potente macchina comunicativa messa in atto dopo l’attentato. Ne è uscita fuori un’opera sovraccarica, prolissa e pesante che si colloca in una dimensione non artistica, non filosofica e neanche meramente di ricostruzione degli eventi. In tal senso, si tratta di un film politico-ideologico, nel vero senso della parola, poiché non rievoca, non riflette, non ripensa ma semplicemente mostra, esaltandolo palesemente, un sistema di vita che non si piega di fronte al pericolo e all’attacco frontale. Le due figure principali sono gli ingranaggi narrativi di queste impostazione e risultano talmente stilizzati nella riproposizione di stereotipi da risultare perfino grotteschi.
Da questa ricognizione effettuata nel campo delle due arti visive più popolari del panorama contemporaneo emerge chiaramente una situazione di inadeguatezza nei confronti dell’accadimento preso in esame. Lo spazio di tempo che ha separato cineasti e fotografi dal crollo delle Twin Towers evidentemente non ha ancora permesso quel necessario processo di completa metabolizzatone che potrà consentire di avviare una riflessione acuta e realmente significativa. Certo, ma ciò è inevitabile vista la diversità tra le due discipline, in ambito fotografico si avverte una sorta di maggiore sincerità, di adesione tutta umana e interiore alla sofferenza e all’angoscia determinata dalla diretta connessione tra azione creativa del fotografo ed evento. In ambito cinematografico, questa connessione è diluita e dilatata. Si percepisce sempre, la presenza ingombrante del sistema industriale che, per ovvi motivi, tende a identificare argomenti coinvolgenti da sfruttare a scopo puramente commerciale e confezionarli per la vendita sul mercato. Il pericolo per quel che riguarda il folle attentato “alqaedista” di New York è proprio questo, cioè la trasformazione da oggettiva tragedia collettiva a prodotto industriale/commerciale, cioè a spettacolo di intrattenimento. Per evitare ciò è bene che anche gli addetti ai lavori sappiano operare con senso della misura. Non esiste comportamento più riprovevole sotto il profilo morale di quello che intende cinicamente utilizzare un evento di morte e distruzione come fattore generatore di guadagni..
Il dramma del World Trade Center, in tal senso, si situa perfettamente in quello spazio storico-contenutistico a cui i cineasti si debbano accostare necessariamente con il massimo rispetto perché il cinema non si trasformi in volgare strumento propagandistico o, peggio, di lucro sulla pelle di persone innocenti e inermi che hanno perso la vita.


di Maurizio G. De Bonis
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