“Le cinèma à part” di Giuseppe Bertolucci
Il 25 giugno 2012, presso il cinema Nuovo Sacher di Roma, si è svolto un incontro per ricordare la scomparsa di Giuseppe Bertolucci. Nell’occasione il Sncci era rappresentato da Piero Spila che ha pronunciato l’intervento che pubblichiamo in sintesi.
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Ho conosciuto per la prima volta Giuseppe Bertolucci grazie a suo fratello, Bernardo. In un’intervista raccontava le fasi di lavoro della sceneggiatura di Novecento, a cui avevano collaborato Giuseppe, Bernardo e Kim Arcalli. E Bernardo ricordava come Giuseppe, il più giovane dei tre, svolgesse con serietà e determinazione il ruolo di “coscienza politica” del gruppo, controllasse il rigore ideologico dell’operazione, immagino dagli strattoni violenti portati dagli altri due compagni. A me piacque tanto quell’immagine (in cui forse un po’ mi identificavo), l’immagine di un ragazzo diventato una specie di “commissario politico” contro un cinefilo visionario come Bernardo e un ex partigiano anarchico e irregolare come Kim. Un ruolo, poi, che a Giuseppe non doveva neppure essergli congeniale (nella sua carriera, non mi è sembrato mai così fedele ad una linea), ma che in quel momento, evidentemente, sentiva di dover svolgere come un dovere.
Che poi è il ruolo, spesso non voluto, che capita ai fratelli minori nelle dinamiche familiari e non solo, quando generalmente devono occupare lo spazio lasciato libero dai fratelli e dalle sorelle maggiori. Giuseppe lo spazio che gli è stato riservato lo ha occupato con grande intelligenza e creatività, lo ha dilatato e fatto crescere, trasformandolo in una geografia inesauribile di occasioni e invenzioni, addirittura in un metodo di lavoro originale, sperimentale e dunque incontrollabile.
In un’intervista che gli feci tanti anni fa per “Cinecritica” ricordo che Giuseppe ad un certo punto parlò di una vocazione di cui era molto orgoglioso: la vocazione per una MARGINALITA’ CONSAPEVOLE. Che non era una delimitazione di territorio entro cui esercitare la propria pratica creativa, bensì una scelta di campo, orgogliosa e appunto consapevole, a favore di un sistema di produzione e creazione “altro”, lontano dal solito frullatore del consenso, e quindi sinonimo di libertà, indipendenza, sperimentazione.
Ecco, la vocazione alla marginalità e insieme il gusto della sperimentazione, esercitato con un nomadismo instancabile attraverso tutti i modi espressivi a disposizione: pittura, poesia, teatro con Roberto Benigni e Fabrizio Gifuni (Pasolini e Gadda), cinema di fiction e documentario, televisione e videoarte. Non c’è stata occasione in cui Giuseppe, in teatro o nel cinema, con un suo film o una sua messinscena, non abbia suscitato sorpresa: che vuol dire, in termini di stile e linguaggio, mai ripetere il consueto, non fare routine, ma rimettere sempre tutto in gioco, tentare strade nuove, sperimentare.
E’ stato così fin dall’esordio, con Berlinguer ti voglio bene. C’era già un monologo teatrale di Roberto Benigni che aveva avuto un grande successo, che aveva attirato l’attenzione generale. Dovendolo trasformare in un film poteva tranquillamente essere riproposto con qualche ovvio accorgimento drammaturgico, ma Bertolucci decise di trasformarlo radicalmente, non solo da monologo a coro a più voci, ma inventando addirittura un’estetica, una specie di underground contadino, un film estremo, eversivo, spesso intollerrabile nel turpiloquio e anche nel disegno di un comunismo assolutamente alieno (chi sa cosa avrebbe detto la commissione culturale del vecchio PCI, se ci fosse stata ancora).
E’ stato così quando ad un certo momento della carriera ha incontrato la ferrovia. Doveva girare un film curioso e coraggioso, Oggetti smarriti (interamente ambientato nella stazione di Milano Centrale), e lui ne approfittò per girare negli stessi giorni, negli stessi luoghi, un documentario che è un autentico gioiello, Panni sporchi. Il committente era la federazione milanese del partito comunista e il documentario doveva rappresentare una realtà di emarginazione, quella che viveva di notte nei meandri della stazione. Giuseppe lo fece ma girando una specie di musical alla Kurt Weill, un docudrama collettivo interpretato dai barboni della stazione, fotografati, illuminati, ripresi con carrelli circolari e movimenti di dolly come fossero, per una volta, divi di Hollywood.
E’ stato così quando ha trattato un tema difficile, quasi impossibile in Italia, come il terrorismo. Con un film da considerare un capolavoro assoluto, Segreti segreti, così apparentemente aperto nella molteplicità dei punti di vista, e invece così serrato, sicuro e giusto, nel giudizio dato al fenomeno criminale della Brigate rosse, un giudizio non moralistico ma solo cinematografico: lo sguardo in primo piano che Alida Valli rivolge alla giovane protetta diventata assassina.
Ed è stato così sempre, con una commedia da camera come Amori in corso, sospesa tra gli incanti di Rohmer e le luci portoghesi di De Oliveira; o con un road movie ferroviario come Cammelli; o con Il dolce rumore della vita, film onirico ed emozionante, declinato sulla magia dei versi di Sandro Penna e del papà, Attilio Bertolucci.
O ancora con le bellissime immagini del Progetto Caproni, ancora un omaggio ad un poeta, visionario e carnale (la ferrovia, i marinai, le suore, Genova, e naturalmente il viaggiatore cerimonioso che: “parte sempre in mattine nebbiose,/ con vaporose e lunghe locomotive nere,/ e si mette a sedere d’angolo, in un vagone” … Ancora un angolo, mai marginale, straordinariamente vitale.
Poi, certo, ci sarebbe ancora da dire del sorriso gentile di Giuseppe, della sua disponibilità all’attenzione, della generosità, della curiosità inesauribile … ma di questo devono dire i familiari, gli amici
più personali …
A chi lo ha conosciuto, apprezzato e amato attraverso il suo cinema e la sua opera, spetta invece di parlare, studiare, far conoscere il suo cinema e la sua opera.
E a me piace salutare Giuseppe Bertolucci come il grande autore di un “Cinema a parte” (alla maniera di Godard). Un cinéma à part che c’è entrato nel cuore.
di Piero Spila