Trasgredire è meglio che curare
L'accoglienza di Benedetta, nuovo lavoro di Paul Verhoeven, è la dimostrazione palese di come si stia perdendo di vista il cinema come elemento perturbante.

La poca attenzione e la trascuratezza con cui in molti hanno accolto la visione a Cannes di Benedetta, nuovo lavoro di Paul Verhoeven, è la dimostrazione palese di come si stia perdendo di vista il cinema come elemento perturbante, in grado di mettere in crisi lo spettatore.
Al termine della proiezione di Benedetta, ritorno alla regia (e al concorso di Cannes) per l’olandese Paul Verhoeven dopo Elle, non sono stati in pochi a soffermarsi sull’aggettivo “blasfemo”, come se questo fosse l’unico modo di approcciarsi a un’opera che ragiona sull’eresia, traendo ispirazione dai fatti di cui fu celebre protagonista Benedetta Carlini, monaca toscana del Diciassettesimo secolo. La verità però è che ricorrendo alla blasfemia non c’è modo davvero di penetrare in profondità la diciassettesima regia di Verhoeven, che è invece per l’ennesima volta una dimostrazione di rabbia, di brutalità vitale, di estremismo. Là dove la blasfemia si limita alla dissacrazione, Verhoeven ricorre a elementi di grande forza espressiva – e perfino ai limiti del trash, si vedano le allucinazioni a sfondo cristologico della protagonista – per cercare di approfondire un discorso sul senso della fede, e ancor più sulla sua rappresentazione. Ecco dunque che Benedetta si trasforma, fin dalle primissime sequenza, in una ricognizione, per niente usuale e ancor meno pretestuosa, sul cinema come unica reale arte/tecnica in grado di mettere in scena il “sovrannaturale”, e dunque l’intervento divino. Con tutte le sue stratificazioni, ovviamente, e per l’appunto la sua inevitabile messa-in-scena. Benedetta non ricorre forse ad alcuni effetti speciali per rendere più evidente la sua sublimazione del divino? Non cerca la giovane suora in odor di diventar badessa un dialogo con il popolo, suo personale pubblico, anche attraverso l’artificio, il colpo di scena, il calembour (arriva addirittura a risorgere)?
Ad apparire però bizzarro è proprio il fatto che questa provocazione, per di più non nuova all’interno della filmografia del cineasta, sia stata accolta con disattenzione pressoché totale dalla platea stampa a Cannes. L’impressione, forte, è che si stia perdendo di vista il cinema come elemento perturbante, macchina dell’immaginario in grado di mettere in crisi il proprio uditorio, e di costringerlo a confrontarsi con le proprie paure, e le proprie “colpe”. Verhoeven scoperchia una volta di più le ipocrisie del consesso umano, e in particolar modo del potere, declinato stavolta in chiave clericale. Ma è soprattutto le assuefazioni borghesi degli spettatori a essere mandate al macero, anche ricorrendo a un immaginario volutamente diretto, privo di sfumature evidenti ma in grado di lavorare sottopelle, e soprattutto di infastidire. Il cinema ancora vissuto come atto di distruzione dell’ovvietà, di ripudio completo dello status quo, di inevitabile messa in crisi di ogni apparato già strutturato, regolamentato, ottuso. Benedetta non è un film libero, è un film che libera lo sguardo dello spettatore, anche ragionando da vicino sul concetto di pandemia – e in modo altrettanto distante dalla retorica. Per questo è ancora oggi pericoloso, e dunque prezioso. Il disincanto e il distacco con cui una gran parte della critica lo ha accolto dimostra solo la mediocrità del presente, dove il cinema è diventato un elemento religioso, e quindi da accettare come sacro senza avere la possibilità della dialettica, e del confronto.
di Raffaele Meale