L’intramontabile lezione di Rossellini, tra esordi e grandi conferme del cinema italiano.
Carmen Albergo riflette sulla lezione di Rossellini all'interno del cinema contemporaneo italiano.
C’è ancora domani, opera prima di Paola Cortellesi (film di apertura e incetta di premi alla 18ma edizione della Festa del Cinema di Roma) è, senza voler abusare del termine e come si suole dire, un film quanto mai “necessario”.
Una opera-azione che inneggia alla continua difesa dei diritti sociali delle donne, sempre minacciati dal giogo atavico del maschilismo, del patriarcato, della violenza domestica “anticamera” di femminicidio, nonostante le specifiche configurazioni di reato, le leggi di tutela, i nuovi traguardi di pari opportunità (non da poco il fatto, in sè indipendente, che il film sia preceduto in sala dallo spot della Axa, il cui slogan recita “Essere donna non dovrebbe essere un rischio”, ma assicuriamoci che è meglio!). Paradossi del progresso…!
Un film radicale, dunque, (a suo modo in dialogo con Barbie di Greta Gerwig, soprattutto nell’uso di un poderoso contrappunto musical(e) sdrammatizzante che funziona già solo come gesto di presa di posizione, prima che di poetica, anche qui da subito manifesta, ovvero il tributo ai grandi della tragi-commedia italiana, Scola, Monicelli, Risi, ma anche al Benigni de La vita è bella… e non a caso, scegliendo di portare sul grande schermo la miseria post bellica e familiare della protagonista Delia, moglie e madre sottomessa, nel suo status di donna senza spessore e valore agli occhi altrui.
Paola Cortellesi veste magistralmente gli stracci (non i panni) di Delia, sul limen sottilissimo dei tempi comici e catartici, un vero e proprio precipizio per lo spettatore invitato a voler stemperare nel riso amaro, anziché piangere, attanagliato da un costante nodo in gola. Una lama che squarcia la messa in scena, pensando che tali vicende purtroppo non sono “d’epoca”.
Tra l’ambientazione della Roma sotto l’occupazione americana, il bilanciamento corale dei ruoli (notevole il sodale Mastrandrea, filtro di distanziamento empatico col personaggio del marito dispotico e violento) grazie alla dominante del bianco e nero, il film ha il pregio di riecheggiare la rivoluzionaria lezione rosselliniana di mettere in scena, in rapporto di parità, le azioni quotidiane delle persone semplici e le grandi svolte storiche: il primo suffragio universale.
La storiografia poi si incaricherà di smentire questa svolta di partecipazione diretta, perché dopo il voto poche donne furono ammesse alla costituente, pur rappresentando la maggioranza del corpo elettorale, in parte a causa di una Democrazia Cristiana capitanata da padri-padroni, sacerdoti di mentalità arcaica (per questa ed altre sommerse verità si veda il bellissimo Libere di Rossella Schillaci). D’altra parte, l’onorevole Angelina non rivestì l’onorificenza auspicata, già nella finzione dell’omonimo film di Luigi Zampa…1947.
Pertanto, ecco confermata la necessità e la virtù.
Un cinema dunque necessario, che rinfonde questa intramontabile contaminazione tra settima arte e sociologia di “ridurre la Storia al livello della vita quotidiana, dando al contempo alla vita quotidiana delle prospettive storiche”. Anzi epiche. Ed è qui che la recente stagione cinematografica nostrana pare dialogare senza mezzi termini, restituendoci in queste emozioni figurative ponti di costruzione di senso e memoria collettiva di un passato, traslato presente. Come non pensare al rapporto tra uomo e contesto in Io capitano di Matteo Garrone?
L’esordio della Cortellesi è certo ancora molto lontano dalla filmografia epica neo-neorealista ormai acclamata di Matteo Garrone, e Matteo Garrone non è ancora alla consacrazione da manuale di storia del cinema come Rossellini, ma il volo pindarico è all’orizzonte. Lo storico Carlo Ginzburg parlando di Paisà, così scriveva “gli uomini sono annegati dall’ambiente, sono piccoli piccoli in un ambiente che è molto grande. Però la scena anziché essere ridotta di importanza, acquista un’importanza straordinaria….non vediamo più nemmeno gli uomini quali sono, eppure prima abbiamo imparato a conoscerli un po’ uno per uno … e questo annegare l’uomo nell’ambiente, è qualcosa dalle forti implicazioni emotive, narrative, interpretative.”
Il ribadito “annegare nell’ambiente”, suona macabro gioco di doppi sensi, eppure è nella resa di poetica visiva di Matteo Garrone una vera e propria programmatica presa di posizione politica.
Perché è studiato nei campi lunghissimi nel deserto, in cui serpentine di uomini – piccole silhouette avanzano stremati, è nelle riprese a piombo sul mare aperto, solcato dalla nave strabordante di uomini- agglomerato di colori indistinti, ma è lì solo fino all’estremo ribaltamento di scala, in un contraccolpo visivo, che solo “gli artisti non indifferenti alla Storia” (per citare fonti critiche) sanno operare: il volto in primo piano che buca lo schermo e urla a gran voce (anche nel paradossale “a bocca chiusa” nell’epilogo di Cortellesi) la sua rivalsa su un destino prescritto, che sia Delia, che sia Seydou per tutti coloro che sfidano la sorte sulla pelle. Senza distinzioni di genere.
di Carmen Albergo