Hoard, intervista a Luna Carmoon: la classe operaia va nell’abisso

Intervista a Luna Carmoon, regista di Hoard, a cura di Antonio Maiorino.

Gli accumulatori seriali di film d’autore si saranno annotati da tempo l’esordio al lungometraggio della giovane londinese Luna Carmoon, Hoard, in proiezione alla Settimana della Critica dell’80esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il film – il cui titolo, tradotto, vuol dire ammasso, accumulo – si era infatti guadagnato il Premio del Pubblico e la Menzione Speciale della Giuria all’attrice Saura Lightfoot Leon, mentre la regista veniva insignita, poco dopo, col premio Valentina Pedicini alla Migliore autrice under 40 nell’ambito della rassegna Venezia a Napoli. E chissà che il cumulo dei premi – che comprende anche quello per la migliore sceneggiatura al Festival di Atene 2023 – non sia destinato a crescere.

Per apprezzare l’esordio dell’autrice, autodidatta, nativa del South-East di Londra, nel patto con lo spettatore c’è che bisogna digerire un po’ di stranezze. A volte, bisogna persino turarsi il naso. La storia, priva di flashback, ruota attorno a Maria, che vediamo bambina insieme alla madre scavare nella spazzatura per bricolage domestico. La genitrice ha un disturbo compulsivo-ossessivo che la porta ad accumulare in casa ogni sorta di oggetto. Madre e figlia si muovono nell’abitazione come in un labirinto. Ma non è un’infanzia infelice, quella di Maria: c’è una complicità bizzarra, cui contribuisce l’età dell’innocenza della bimba. Qualcosa succede, e la troviamo cresciuta con una madre adottiva. È un film nel film. Una linea unisce le due parti: il trauma, la perdita, il dolore che affiorano nella matassa della memoria. Succede quando piomba in casa Michael (Joseph Quinn), un tempo in affido e ora cresciuto, che con i propri atteggiamenti giocosi e l’odore di spazzatura alla fine del turno da netturbino, risveglia in Maria scintille di ricordi. A costo di scottare.

Che sia o meno un esordio scintillante, va riconosciuto a Hoard di brillare per originalità del linguaggio e scanzonata profondità dello scavo interiore: uno dei titoli di maggiore interesse del 2023, insomma (un po’ sommerso dal cumulo di piattaforme e uscite in sala). Valeva la pena parlarne con la regista Luna Carmoon.

L’intervista: Luna Carmoon parla di Hoard

Quando un film dà la sensazione di essere così intenso e sentito dal punto di vista emotivo, come succede in Hoard, vien da chiedersi se non ci sia un fondo personale legato all’esperienza del regista. È stato così per te? Ci sono elementi autobiografici in Hoard?

Sì e no. Molte persone, vedendo Hoard, hanno pensato a un film autobiografico, ma non è così in senso stretto. Ogni personaggio nel film nasce dall’idea di qualcuno che conosco o amo, un familiare o un amico. Questo vuol dire che il film è molto personale, e d’altro canto non farei un film che non fosse personale o non venisse dal mio cuore. Hoard mi ha salvato. È stato un rifugio a cui tornare a casa dopo il lavoro, un luogo dove visitare personaggi. Per personaggi come la madre o Michelle (la madre adottiva, n.d.R.), c’è un miscuglio alchemico tra mia nonna e mia madre, ma io non sono la protagonista Maria. A volte posso avere atteggiamenti disgustosi come lei: capita a tutti, anche alle persone che amiamo. Ma non sono lei. Suppongo sia corretto riassumere dicendo che il film è personale, ma non autobiografico.

Nelle tue note di regia, hai dichiarato che “il dolore non scompare mai veramente”. Che concezione del dolore emerge dal tuo film? È qualcosa di negativo o di neutro? È un fantasma che perseguita o un ospite che ognuno deve decidere come accogliere?

Mi piace l’idea che sia come un ospite. È quasi come un ospite indesiderato con cui devi abituarti a convivere, un coinquilino che preferiresti non avere, ma con cui devi saper stare. Il dolore convive col passato. Se l’hai vissuto da bambino, non emerge subito. Può sorprenderti dopo anni e colpirti come un proiettile. Può trattarsi della perdita di una persona cara o di una situazione che bussa di nuovo alla tua porta. E penso che non sia né negativo né positivo, quanto una miscela di entrambe le cose. Si tratta di quello che Maria inizia a sperimentare con bagliori e scintille. Le scintille sono schegge del catalogo più oscuro, come i catalizzatori di un ritorno al passato. Le scintille sono quel caldo sentimento che proviamo quando un odore ci ricorda nostra nonna, quel pasto che ci hanno cucinato quel giorno d’inverno. Il suo viaggio consiste nel provare a vivere questa esperienza quando riaffiora il ricordo della madre.

Non so se ti rendi conto dello shock potenziale dello spettatore nel vedere Hoard e scoprire, dopo 30 minuti, che praticamente inizia un altro film. Tutto avviene in tempo reale: nella prima parte Maria è bambina e la si vede con la madre; nella seconda è adolescente. Perché una scelta così drastica come quella di rinunciare ai flashback e girare, più che un prologo, due film in uno?

In effetti dovevano sembrare due film diversi. La vita viene percepita in modo diverso da una stagione all’altra, è come divisa in capitoli. Quando vediamo Maria da adolescente, capiamo che ha trascorso con la madre adottiva Michelle molto più tempo di quello che aveva trascorso con la madre naturale. Naturale, allora, che la sua vita sembrasse così diversa, che fosse quasi un nuovo inizio. Credo di amare molto i film che cambiano completamente di tono, perché è così che si percepisce la vita. Usare i flashback sarebbe stato un po’ come barare. Non è così che funzionano i ricordi, non sono come un film che si svolge nella testa. Ricordiamo le cose in modo non lineare. I sensi possono farci sovvenire memorie diverse da quelle dei ricordi. Un film deve essere “sensoriale”. È come se toccassi la coperta di tua zia, oppure se sentissi l’odore di un negozio di antiquariato o ripensassi a quella volta che eri al parco e hai sentito l’odore della ruggine sul palo.

È curioso: Hoard è un film sensoriale ma manifesta i contorni sfumati di un ricordo.

Volevo far provare al pubblico un senso di déjà-vu. Un mio amico che soffre di un particolare tipo epilessia mi ha raccontato che sente delle sensazioni di forte déjà-vu e mi ha fatto venire voglia di imprimere questo effetto a un film. Tra la prima e la seconda parte del film, ci sono dei collegamenti davvero sottili, spesso innescati anche a livello sonoro per qualcosa che dice un personaggio. Mi sembra una strategia più raffinata rispetto a quella dei flashback.

A proposito di strategie, ti volevo chiedere proprio della scena esatta di transizione dalla prima alla seconda parte. Dal punto di vista visivo siamo nello stesso luogo: un istante prima Maria bambina è seduta sulle scale; subito dopo è adolescente e sta andando in cucina dalla madre adottiva. Ce la mostri giocosa, camminare scalza e dire quello che le passa per la testa. Vista l’ellissi temporale, mi chiedevo cosa volessi farci capire di lei in questa prima apparizione da cresciuta.

Volevo catturare una ragazza reale, a suo modo assurda, in qualche modo non davvero colpita da quello che le è successo. Essendo cresciuta in un ambiente sano con Michelle, deve avere in qualche modo respinto il passato per riprendersi completamente. Doveva trasmettere una sensazione di forza emotiva. Credo che, quando accadono cose terribili, ci piace pensare di esserci trasformati o di essere cambiati. Ma spesso quelle cose ci accompagnano per tutta la vita e non ci cambiano: semplicemente, torniamo a essere noi stessi.

Mi colpisce la parola assurda. In effetti, in questa prima scena da adolescente, Maria parla quasi con un flusso di coscienza infantile. Credo persino che di punto in bianco blateri qualcosa del tipo “ho deciso che voglio donare gli organi”.

Di fatto è molto infantile. È selvaggia e insubordinata. Per la maggior parte del tempo è in modalità di sopravvivenza. Non è una persona che analizza a fondo ciò che le accade. È un prodotto di quell’epoca e di quel mondo. La gente non parlava di salute mentale, soprattutto la classe operaia. Solo nell’ultimo decennio la gente ha iniziato a riconoscere la salute mentale come un tema di dui parlare, anche nella classe operaia. Nel luogo popolare da cui proviene Maria, diciamo il South-East di Londra negli anni ’90, non se ne faceva oggetto di conversazione. Si andava avanti e basta. Ma a questo, a volte, ti si ritorce contro.

Non avevo in programma di chiedertelo, ma a questo punto mi incuriosisci: c’è uno sfondo sociale specifico per questa storia? Sono personaggi pensati per funzionare nell’habitat della classe operaia di cui parlavi?

La mia provenienza sociale è la stessa dei miei personaggi. Conosco bene quell’ambiente e chi lo popola, è per questo che appaiono così tridimensionali e reali, perché il loro profilo ha una corrispondenza con persone reali. Credo che si possa vedere che non sono caricature o parodie di ciò che forse la gente pensa sia la classe operaia.

Certo, non ci si sente piombati in un film di Ken Loach. Ma il contesto, da quanto mi racconti, ha un’influenza sulla storia. In che modo?

Entra sicuramente nella storia del perché Michael e Maria si comportino nel modo in cui si comportano per il fatto di appartenere a quello spazio e a quell’epoca. All’inizio si sentono ai margini dello Zeitgeist (spirito del tempo, n.d.R.): non si vestono alla moda, non si vestono come persone che hanno grandi interessi nella musica, nell’arte o nel cinema. L’idea, in quel contesto, è che uno vada a lavorare, torni a casa, beva una birra, vada a letto o esca con gli altri. Michael è dovuto crescere in fretta per andare a lavorare, Maria conosce praticamente solo la scuola: entrambe sono ai margini della società.  Non è così per l’amica di Maria, Laraib: si capisce che ama la musica e la moda, vuole uscire e fare esperienze, mentre Michael e Maria sono molto più semplici. Ho conosciuto tante persone così, che si accontentano e che vivono in una sorta di modalità di sopravvivenza.

Avevo fatto una scommessa con me stesso, e l’ho vinta: che nei primi 15 minuti della nostra intervista a un certo punto mi parlassi di “odori”. Hoard andrebbe proiettato in odorama. Si parla spesso di odore, di puzza: quello dei “cumuli” della madre di Maria, e poi della stessa Maria, o dello stesso Michael, che fa il netturbino e dice di aver bisogno di una doccia. Ma sono convocati anche altri sensi: c’è una scena crudissima in cui Michael mangia le ceneri della madre di Maria – il gusto; tante sequenze in cui Maria e Michael hanno bisogno di contatto fisico – il tatto. Da cosa deriva questa narrazione polisensoriale?

Una parte importante della mia vita e del mio essere, dunque anche delle mie storie, è questo: volere che tutti i sensi siano impegnati. Il mio lavoro si alimenta dell’olfatto, del gusto, del tatto. È così che vivo i ricordi, attraverso gli odori, i suoni, le consistenze e i sapori. Non è una coincidenza, secondo me, che io abbia perso l’olfatto a causa del Covid mentre scrivevo questa storia. Solo di recente l’ho recuperato, almeno in parte. Probabilmente non lo riacquisterò mai del tutto. Sono diventata ossessionata dagli odori e dai profumi. Ho iniziato a ordinare un sacco di campioni di profumi diversi, perché volevo disperatamente sentire l’odore che avevo prima. È diventato parte integrante del raccontare questa storia; c’erano profumi e odori anche sul set, li spruzzavamo io e lo scenografo Bobby Cousins. L’odore cominciava a riapparire man mano che raccontavamo la storia.

Questa è un aspetto probabilmente sperimentale di regia. L’odore che viene raccontato dal film è praticamente quello tendente alla putrescenza degli accumuli di oggetti in casa di Maria. Come reagivano gli attori?

Man mano che ne spruzzavamo sempre di più intorno al set, la gente si tappava il naso e chiedeva: “Cos’è questo odore che continua a tornare?”. Penso che fosse necessario lavorare così per raccontare questa storia. Maria ha qualcosa di animalesco, e quando sei un animale, sei più in contatto con i tuoi sensi, sei consapevole dell’esperienza sensoriale completa. Quando Michael e Maria iniziano il loro percorso, diventano sempre più animali connessi con lati oscuri di sé. L’olfatto, in questo, gioca un ruolo decisivo. Per Maria, si tratta di ciò che determina l’inizio del ricordo della madre, ed è Michael ad innescare tutto questo.

A volte chi scrive sceneggiature ha una sorta di sadismo verso i propri personaggi. Voglio chiederti proprio di Michael. Uno spettatore potrebbe farsi l’idea che il personaggio ti interessi poco in sé, vale a dire che Michael sia null’altro che uno strumento di sceneggiatura – passami l’espressione – da manipolare per suscitare in Maria il ricordo della madre. È azzardato pensarla così?

Francamente: Michael per me era effettivamente uno strumento. Era un oggetto, come il ferro da stiro, la piscina gonfiabile o il lenzuolo. È un’idea forte, ma è così: un personaggio che diventa uno strumento, un oggetto. Maria lo usa come un attrezzo per il giardino per rastrellare il passato e accedere alla memoria. È tuttavia vero anche il contrario: per Michael Maria è un modo per accedere a un’infanzia che non ha mai vissuto. Ti confesso, comunque: mi piace che il pubblico venga un po’ ingannato nel pensare che Michael sia parte integrante della storia, per poi scoprire, semmai, che serve alla storia, che serve a Maria.

Allora sì, a volte gli sceneggiatori sono sadici. Ma non sempre lo sono gli attori: Joseph Quinn ci avrà messo del suo nell’interpretare Michael, forse persino disallineandosi dalla scrittura, come a volte fanno gli interpreti.

Ti dirò: Michael non mi piace come personaggio. Non mi piacciono le sue azioni e non le giustifico. Ovviamente lui resta sconvolto quando capisce il senso che il suo rapporto ha per Maria. Ciononostante, anche a dispetto del fatto che io lo trovi disgustoso e atroce come essere umano, Joseph Quinn (l’attore che lo interpreta, n.d.R.) gli ha conferito umanità, l’ha trattato con una pietà che non ho provato nemmeno io quando ne ho scritto in sceneggiatura. L’ha fatto in modo naturale, umano; l’ha fatto con innata gentilezza. E penso che questo abbia un effetto sullo spettatore. Non c’è che da ringraziare Joseph per aver creato una diversa prospettiva.

A proposito di interazioni con gli attori, ho letto di recente che tra i lavori emergenti c’è quello dello specialista di scene sessuali sui set cinematografici (compito che, volendo, potrebbe essere incorporato tra le attività del regista). Volevo chiedere come funzioni per te. C’è una forte tensione fisica tra Maria e Michael, ma quando arriva la scena di sesso, la sensazione è che i due la vivano in modo diverso. Per Maria è piuttosto una forma di curiosità, non sembra puro desiderio dettato dall’attrazione.

Sul set avevamo una coordinatrice dell’intimità, se si può chiamare così. Si tratta di Louise Kempton, e lasciami dire che è stata fantastica. Quelle scene non sarebbero state belle nemmeno la metà se le avessi coordinato io. Sono come una danza. Hanno ritmo, movimento; eppure, sembrano così fluide e naturali. Sono come animali che danzano insieme, e vale così anche per altri momenti della storia.

La scena di sesso è poco sexy. Lei è piuttosto disimpegnata, dissociata; solo per lui è un momento di intimità. A Louis ho mandato molte scene per farle capire cosa volessi. Una di queste era quella di Juliette Binoche e Jeremy Irons in Damage. Si tratta di scene di sesso molto animali, molto brutali. Sono due persone che non dovrebbero farlo l’una con l’altra. Quel film infrangeva tabù. Il modo in cui si accaniscono l’uno sul corpo dell’altra è come se entrambi stessero esplorando parti di loro stessi. Ed è così che Maria esplora parti di sé in queste scene intime.

Credo che una delle ragioni per cui lo spettatore di Hoard tenda a restare allo stesso tempo spiazzato e intrigato, consista proprio nel sentirsi trascinato in queste bizzarre interazioni, che durano anche interi minuti, tra Maria e Michael. Non c’è solo un lato animalesco, ma anche bambinesco.

Anche quando fanno sesso, in effetti, trovo che ci sia qualcosa di molto infantile. Ha a che fare con quanto ti dicevo: esplorare sé stessi, smuovere la psiche attraverso il corpo. La lotta con le palle di cibo, poi, è una delle mie scene preferite. È raro vedere una donna in quella posizione rispetto a un uomo. Lui è molto più grande e si comporta come un bambino. Anche se sembra che Maria abbia il controllo, mentre scrivevo sentivo che c’era qualcosa di sbagliato. Mi sembra che lei venisse in qualche modo sfruttata

Vorrei che parlassimo proprio delle relazioni di Maria, ma sul versante femminile. Nei film ci sono spesso sequenze “accessorie”, che potrebbero essere eliminate senza compromettere la linea narrativa portante. È anche vero, però, che i buoni registi sanno lavorare su sfumature e dettagli. Ecco, quindi, che in Hoard interazioni come quelle di Maria con le parenti acquisite Holly ed Ellie – che la denigrano in maniera quasi bullistica – o con l’amica Laraib – con la quale ha una speciale complicità – sembrano non aggiungere nulla alla storia, ma raccontarci qualcosa del personaggio. Come le hai concepite?

Amo le relazioni femminili di tutti i tipi. Trovo che siano piene di dicotomie e che siano più complesse delle amicizie o delle relazioni tra uomini. Spesso si dice che gli uomini parlano spalla a spalla e le donne faccia a faccia. Entrambe hanno i propri problemi ed entrambe sono belle a loro modo, ma credo che le relazioni tra donne siano più piene di vita. Tutte le donne della storia sono parte integrante del mondo e degli spazi da cui provengono. Laraib è molto importante per Maria. È il luogo in cui trova la sua femminilità. Trova una fetta di madre in lei. Maria fa con Laraib molte cose che faceva con sua madre: ballare, scherzare, fare indovinelli l’una con l’altra. La loro dinamica è molto cinetica.

Laraib, interpretata da Deba Hekmat, è uno di quei personaggi del film che si ispirano alla tua personale esperienza?

Laraib si basa sulla mia migliore amica reale. Siamo cresciute insieme e abbiamo un bellissimo rapporto.  Spesso non è quanto si vede in un film a proposito delle relazioni femminili tra adolescenti: vengono rappresentate come relazioni tossiche. Qui è diverso: Maria e Laraib si sono incontrate giovani, come si vede nel film, e si riempiono il cuore a vicenda.

Ma lavori molto bene anche con la dinamica opposta, quella dell’odio.

Adoro la dinamica dell’odio. C’è un vero e proprio rancore tra Maria, Holly ed Ellie. Pena Iiyambo e Honey Makwana, che le interpretano, sono dei geni della comicità. Sono come quei cugini che non sopporti, ma portano anche amore e leggerezza. Così vale per altri personaggi secondari, come la loro madre Sam (Cathy Tyson) o Leah (Ceara Coveney; è la fidanzata di Michael, n.d.R.), che portano levità nel film, per bilanciare i momenti cupi, intensi, tristi.

A conferma del fatto che un regista lavori molto di contrappesi, c’è una sorta di bilanciamento degli opposti anche tra la madre naturale della prima parte, interpretata da Hayley Squires, e quella acquisita della seconda, Michelle, interpretata da Samantha Spiro.

Michelle bilancia il ricordo della madre naturale: quest’ultima è una memoria, mentre Michelle è la realtà di tutti i giorni. Michelle è i vestiti puliti, è la cena a tavola. È la routine. È quella che trascina fuori dal letto per andare a scuola. E in quella routine, c’è tanto amore, di contro alla fantasia della madre naturale.

Chiudiamo proprio con questa doppia linea di Hoard: quella della fantasia e della realtà, della memoria e del presente. Per quest’ultimo, lo stile è realistico, anche con camera a spalla. Per i ricordi, invece, si accendono quelle “scintille” di cui parlavi e tutto si fa più evanescente in termini visivi. Senti di appartenere più all’uno o all’altro stile, oppure ti identifichi, semplicemente, con la mescolanza dei due linguaggi?

È così che si presenta il mondo per me. Ho un disturbo dissociativo, quindi a volte il mondo mi sembra fantastico, come un sogno febbrile, mentre altre volte sembra una realtà brutalmente radicata. Negli ultimi due decenni si sono visti drammi sulla classe operaia molto realistici dal punto di vista sociale e un po’ cupi. Non mi piace guardarli. Penso che si possa venire da un luogo oscuro e avere una storia oscura, ma con elementi fantastici. È quello che voglio, è quello che vogliamo quando guardiamo un film: vuoi vedere te stesso, ma anche evasione, magia. Anche in quei luoghi ce n’è. C’è vibrazione, c’è speranza, c’è un sogno febbrile che è attesa.

C’è quindi una controllata dissociazione di stile in Hoard.

Il film ha in effetti un doppio tono visivo. È quello che chiamo “un mondo alla Alan Clarke”, in cui, poi, vien fuori la paura dell’assurdo: quando il passato inizia ad incontrare il presente e a sanguinarci dentro. È un po’ come in Ken Russell. Tutto si accentua, diventa isterico. Non a caso abbiamo utilizzato due diversi obiettivi. Uno era degli anni ’50, per il mondo reale; l’altro era un obiettivo giapponese degli anni ’70, che rende tutto molto stridente e un po’ spento.

Quindi il Ken che possiamo iscrivere al libro delle tue influenze è Russell, non Loach.

Amo i registi fantastici come Ken Russell. È una grande influenza per me. Spero lo si possa notare in Hoard. Anche sul piano linguistico, si può osservare come il linguaggio cambi decisamente. Diventa una sintassi da teatro dell’assurdo. I personaggi si parlano in maniera ritmica, diversamente da come fanno le persone reali.

Hoard, dunque, è un film pieno di sorprese. Nemmeno due film in uno, come dicevo all’inizio, ma tre. Bisogna stare attenti a non perdersi.

Si entra in una sorta di stato allucinatorio. Maria ci si perde, ricadendo nel puro delirio. A volte, però, può essere divertente.


di Antonio Maiorino
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