Fiesole, Premio Meastri del Cinema – Convegno: La cosa giusta di Spike Lee
Il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, in collaborazione con la città di Fiesole, con la Mediateca Regionale Toscana e con il Gruppo Toscano dello stesso SNCCI, organizza un Incontro dal titolo La cosa giusta di Spike Lee. L’iniziativa, che avrà luogo durante l’intera giornata di mercoledì 11 luglio all’Auditorium Sinopoli (Villa La Torraccia a San Domenico di Fiesole), ha lo scopo di focalizzare e discutere gli aspetti più significativi sotto il profilo artistico, culturale e ideologico del cinema del regista statunitense, cui quest’anno è stato assegnato il “Premio Maestri del Cinema”. I lavori convegnistici saranno introdotti dalle relazioni dei critici cinematografici Claudio Carabba, Ernesto de Pascale, Fernanda Moneta, Gabriele Rizza, Giovanni Maria Rossi, Edoardo Semmola, Stefano Socci, Massimo Tria.
Alla discussione, coordinata da Bruno Torri, parteciperà lo stesso cineasta, che ormai da molti anni è considerato il più importante regista afroamericano, oltre che un autore tra i più prestigiosi nel panorama del cinema mondiale. Durante l’Incontro sarà anche presentato il libro Nero su bianco. Il cinema di Spike Lee, curato da Gabriele Rizza e Giovanni Maria Rossi, e pubblicato per l’occasione dal SNCCI.
Introduzione Nero su bianco*
Si può ben dire, parafrasando il titolo di uno dei suoi film più famosi, che Spike Lee non soltanto fa la cosa giusta, ma la fa anche nel modo giusto. La cosa giusta consiste nell’attuazione di una sua dichiarazione d’intenti che è anche, almeno in parte, una dichiarazione di poetica: “Sono un uomo di colore e voglio fare film sulla gente di colore”. Il modo giusto consiste proprio nel come i suoi intenti e la sua poetica vengono tradotti nella concreta attività cinematografica. E’ noto che Spike Lee non è soltanto regista, sceneggiatore e, a volte, attore del suoi film, ma ne è anche, da solo o con altri, il produttore. Con molta lucidità e spirito pratico ha subito capito che il controllo dei mezzi di produzione, specialmente all’interno degli USA e di Hollywood, è una condizione essenziale per non subire in misura eccessiva gli inevitabili condizionamenti industriali e mercantili, e per garantirsi il maggior margine possibile di libertà espressiva. Pertanto, all’inizio del suo percorso creativo, dopo un utile tirocinio nel campo del cortometraggio, esordisce nel 1984, all’età di 27 anni, con Lola Darling, un film autoprodotto, di bassissimo costo, girato a 16 mm. in un paio di settimane, e che gli merita subito una diffusa attenzione e molti consensi critici, specialmente in campo internazionale a seguito della presentazione al festival di Cannes. Naturalmente gli apprezzamenti non riguardavano tanto o soltanto il modo di produzione del film quanto, soprattutto, le sue specifiche qualità cinematografiche, l’originalità contenutistica e formale, l’afflato libertario che lo animava, la vena ironica che accompagnava la raffigurazione di ambienti e tipologie umane (in particolare la protagonista, cui il regista presta più di un tratto autobiografico). Lola Darling, insomma, si presentava con la massima evidenza come il classico film d’autore, in quanto manifestava un grande talento, apertura alla sperimentazione “linguistica”, urgenza di dire. Non solo: gli ottimi incassi al box office, in patria e all’estero, danno al regista una notevole forza contrattuale, consentendogli di trovare più facilmente i finanziamenti necessari per la realizzazione di progetti veramente ed esclusivamente suoi. Ha inizio così una filmografia quantitativamente e qualitativamente molto ricca, costellata di successi, coerente nelle intenzioni e negli esiti, attraverso la quale Spike Lee conferma la giustezza delle proprie scelte operative connessa alla maturazione di un proprio stile, che appunto mira a coniugare identità autoriale e strategia produttiva, spessore discorsivo e coinvolgimento del pubblico. Tutto ciò è ravvisabile anche quando dirige film di alto costo, inscrivibili in un genere, con più scoperte aspirazioni commerciali, come ad esempio, Inside man, una perfetta e gioiosa macchina spettacolare in grado di catturare la partecipazione emotiva di qualsiasi tipo di spettatore. Muovendosi in questa direzione, che gli consente di valorizzare le sue doti registiche e insieme di trovare un effettivo riscontro sociale, Spike Lee viene considerato, da tempo, il più importante cineasta afroamericano. Il che è assolutamente vero, per molte convincenti ragioni; tuttavia è anche una definizione che, se presa troppo alla lettera, rischia di diventare limitativa. Perché senza alcun dubbio è il mondo della gente di colore a costituire la prima fonte ispirativa di (quasi) tutti i suoi film, perché sono i temi del razzismo, dello sfruttamento, dell’odio, della violenza che più frequentemente risultano trattati nel suo cinema, in quanto sono quelli che maggiormente connotano la condizione umana dei “ghetti” metropolitani in cui i neri, nonostante i processi di emancipazione da loro stessi messi in moto negli ultimi decenni, sono tuttora normalmente costretti. Ma assieme a tutto ciò, e al conseguente carico di rabbia e denuncia, di indignazione e ansia di riscatto che il cinema di Spike Lee trasmette, vi è anche, proprio per la sua sostanza artistica e culturale, un senso più generale, che riguarda tutti. Si pensi, per fare un solo altro esempio, all’anticonformismo, spesso contrassegnato da risvolti umoristici, con cui il regista rappresenta il sesso e gli attinenti comportamenti esistenziali per constatare che quello che viene mostrato e raccontato sullo schermo appartiene direttamente a ognuno di noi, in quanto è, o può essere, parte costitutiva del nostro vissuto: pur essendo rivolto principalmente a loro, gli spettatori neri non sono gli unici interlocutori del suo cinema: ne possiamo beneficiare in tanti, in tante parti del mondo. E, sempre a proposito della portata più universale dei film di Spike Lee, che pure sono volutamente e precisamente radicati in circoscritte realtà e situazioni sociologiche, interroghiamoci su quella felice contraddizione che è La venticinquesima ora, cioè il suo capolavoro, l’opera più compiuta per resa espressiva e densità di significativi, il cui protagonista è – eccezionalmente – un bianco. Il quale, tuttavia, è anche, e ancora una volta, un “diverso”, un “irregolare” costretto a scontrarsi con le regole sociali, a cercare e a praticare una propria morale, a guadagnarsi da solo, attraverso la sofferenza, la dignità umana. Anche in questo caso, e in maniera forse ancor più persuasiva, Spike Lee ci comunica e implicitamente ci propone una visione dell’uomo che, in contrasto con i dominanti modelli sociali basati sui rapporti di potere, sulla repressione, sull’ipocrisia, si umanizza, rivendicando attivamente come persona i valori della responsabilità e della solidarietà. E’ anche in virtù di tutto questo che i suoi film, straripanti di energia e sostenuti sempre da più o meno esibite istanze etiche e in definitiva politiche, finiscono per avere una funzione vivificante, e quindi per accrescere ulteriormente le motivazioni che portano a riconoscere in Spike Lee un “maestro del cinema”.
*Bruno Torri (Presidente Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI)
di Bruno Torri