Convegno SNCCI Prato – Quando la quantità diventa fenomeno

Il nuovo cinema italiano è un corpo estraneo nel dibattito culturale del nostro Paese e di sicuro lontano dagli epicentri critici collocati in altre aree emergenti o marginali del mondo. Sono poche le attenuanti di un’attenzione rivolta solo al singolo caso, al fenomeno del momento, al premio ricevuto, alle assenze in festival importanti. Una pigrizia professionale che si tinge di provincialismo e che si ferma ad uno sguardo superficiale anche quando lo si vuole profondo. Eppure, il nuovo cinema italiano, almeno quantitativamente, esiste. Eccome.
Dobbiamo necessariamente partire dai numeri, dalla quantità, perché sono numeri importanti, che indicano un fenomeno che è percepito, quando lo è, solo nella sua vaghezza, ma non nella sua assoluta precisione, singolarità e importanza. Perché la quantità, che ha dell’eccezionale, si è fatta fenomeno rilevante di una situazione produttiva. Vediamo dunque i numeri.

Tra il giugno 1990 e il giugno del 2000 le opere prime realizzate in Italia sono state 250. Sono stati 265 i registi che hanno realizzato la loro opera d’esordio (sono più dei film perché alcuni sono in co-regia). Un fenomeno che è cresciuto soprattutto nel secondo quinquennio degli anni Novanta: se tra il 1990 e il 1995 sono stati girati 116 film, tra il 1996 e il 2000 ne sono stati girati 144, quindi una media di 19 film all’anno per il primo quinquennio e di 29 per il secondo. Tra il giugno del 2000 e la fine del 2005 le opere prime sono state circa 230. Quindi con una media di 46 film all’anno e con le punte massime nel 2002 (49) e 2004 (48).
Il fenomeno è stato quindi in progressiva e costante crescita a fronte di una diminuzione della quantità totale di film prodotti. Se questi dati vengono poi paragonati alla produzione complessiva si evince che le opere prime hanno un peso che varia dal 20 al 30 per cento della produzione.

Ragioniamo su questo dato: in quindici anni hanno esordito in Italia qualcosa come 490 nuovi registi. E’ un dato quantitativamente ragguardevole, se non addirittura un fenomeno abbastanza unico nella storia del cinema. Se si pensa che nell’autorevole dizionario dei registi italiani di Roberto Poppi, che va dall’inizio del sonoro al 2000, i registi schedati sono poco più di duemila, si capisce bene che 490 nuovi registi sono un’entità rilevante.
Uno storico del cinema del futuro che si troverà ad analizzare questi dati dovrà necessariamente desumerne che, nel periodo preso in considerazione, c’è stato un cambiamento generazionale di enorme portata, che il cinema italiano ha radicalmente mutato la classe anagrafica dei registi, che ha costruito una nouvelle vague di nuovi registi. Sarebbe un giudizio giusto? Stiamo davvero vivendo una trasformazione radicale della leva dei registi italiani, oppure si tratta di un fenomeno drogato, di un malessere del sistema, di un’eccezionalità senza l’eccezionalità del fenomeno? E in seconda battuta: si tratta di una trasformazione solo quantitativa oppure anche qualitativa?
Prima di provare a dare una risposta, vediamo di capire meglio il fenomeno con altri dati. Per prima cosa verifichiamo se l’opera prima di questi neo registi è anche la loro opera unica, i famosi due film in uno: il primo e l’ultimo. Perché se risultasse un “genocidio” del debuttante la quantità produrrebbe effimericità, sarebbe una quantità evanescente, ma se si dovesse rilevare che nel tempo una parte consistente dei debuttanti sono stati capaci di firmare la loro opera seconda e anche terza, la quantità assumerebbe le caratteristiche della persistenza. Da fenomeno improduttivo si trasformerebbe in fenomeno produttivo.
Non potendo prevedere il futuro dei registi che hanno esordito negli ultimi anni (vedremo se riusciranno a fare la loro opera seconda), bisogna basarsi sui dati del decennio 1990-2000 dove il trenta per cento degli esordienti è riuscito a realizzare la propria opera seconda e il ventidue per cento anche l’opera terza: vuol dire che dei 265 registi del decennio, circa 85 hanno realizzato l’opera seconda e 55 l’opera terza. Potrebbe sembrare un’ecatombe, ma guardando i numeri da un altro punto di vista la selezione non appare così drastica e ha invece lasciato sul campo una considerevole quantità di nuovi registi. In un panorama produttivo così ristretto com’è il nostro, avere una sessantina di nuovi registi che continuano a lavorare e non sono nel frattempo annegati nel mostruoso oceano delle furbizie dei produttori da articolo 28, è un dato che pesa. Si afferma da alcune parti che questa febbrile iperproduzione d’esordi si deve alla produzione di rapina, di sfruttamento del Fus ministeriale, insomma di un basso profilo produttivo nel quale si produce un film a basso costo, si prendono i soldi dallo Stato, si guadagna e si dimentica il prodotto.

Dai dati in nostro possesso risulta che il 38% dei film realizzati tra il 1990 e il 2000 sono stati realizzati con il Fus, e un 5% ha trovato anche finanziamenti dei fondi europei. Significa che più della metà dei film opere prime non è stato realizzato con soldi statali, ma autoprodotti (il 25% dei casi), o prodotti da piccoli produttori indipendenti in concorso magari con altri produttori pubblici o privati (coproduzione con la Rai, ad esempio). Il caso più eclatante, anche se non l’unico, di autonomia produttiva è quello di Fame chimica di Antonio Bocola e Paolo Vari i cui componenti del cast e della troupe hanno acquistato quote del film diventandone coproduttori. Un film lontano dal Fus e dai suoi rischi di operazioni unicamente speculative.
Non c’è dubbio che la droga dei soldi statali c’è e c’è stata, ed ha prodotto una folta schiera di produttori che non rischiando nulla non investono nemmeno nella qualità del prodotto. Ma l’effetto del finanziamento pubblico non spiega completamente il fenomeno. In Italia, con grandi sforzi, lunghe attese, micragnosi prestiti, bassi budget, ci sono molti giovani autori che riescono a produrre anche senza i contributi statali, che vogliono realizzare il loro film anche di fronte a difficoltà non indifferenti. Tutto ciò dimostra un’importante vitalità sotterranea a cui si dovrebbe rispondere con un progetto di politica economica che investa l’intero sistema cinema (in particolare la formazione, la pre-produzione e la circuitazione, anelli strutturalmente deboli). Il nuovo cinema deve diventare una risorsa e non uno spreco di risorse finanziarie e intellettuali. Ci chiedevamo se i 490 registi debuttanti formano una tendenza, una vera nouvelle vague, un gruppo che mostra linee di forza comuni. La prima risposta è negativa, ma non è necessariamente positivo che vi sia una tendenza. Il bisogno di linee di forza comuni è più un bisogno della critica che una necessità del buon cinema. Si potrebbe addebitare la disomogeneità alla stessa ontogenesi dei debuttanti, con percorsi formativi, provenienze culturali e bisogni espressivi diversi.
C’è chi proviene dal mondo del teatro (ad esempio, Andrea Adriatico, Luciano Cannito), dal mondo della pubblicità o dei videoclip musicali (Ambrogio Lo Giudice, Luca Lucini, Davide Cecchi,…), chi dalla critica cinematografica (Claudio Fausti, Serafino Murri,…), chi dal contesto televisivo (Duccio Forzano,…) e chi ha passato un po’ tutte le esperienze. Si pensi ad esempio ad uno come Stefano Pasetto, 35 anni, laurea su Antonioni, esperienze di teatro, scritti letterari e poi corti e documentari prima di arrivare a Tartarughe sul dorso. Ha fatto di tutto, cinema compreso. Nella formazione dei neo registi, non esiste più un cammino univoco, come, ad esempio, il Centro sperimentale di cinematografia. E’ un cammino che attraversa le vie più disparate come la produzione di corto e mediometraggi soprattutto in video (più del 30%), della sceneggiatura (il 18%), dell’assistenza alla regia (il 16%), della recitazione (il 15%).
Non è nemmeno casuale che si esordisca anagraficamente tardi. Quasi il 60% dei registi ha esordito tra i trenta e i quarant’anni, e il 27% tra i quaranta e i cinquanta. Ricordiamo che Bertolucci esordì a ventidue anni, Bellocchio a ventisei, Samperi a ventiquattro, Moretti e Faenza a venticinque: dei bambini rispetto ai nuovi registi italiani. Le ragioni produttive di questi esordi anagraficamente tardivi sono dovuti alla formazione culturale (il 50% ha un titolo di studio superiore o è laureato), alla varietà di esperienze che precedono l’approdo cinematografico, al lungo iter produttivo che ha allungato il periodo di gestazione del film. Wilma Labate racconta che per realizzareAmbrogio ci sono voluti sei anni, Ivan Roberto Orano ha impiegato otto anni dal Premio Solinas al primo ciak, Claudio Bondì ha aspettato quattro anni dall’assegnazione del fondo art. 28 all’arrivo dei finanziamenti. Dall’assegnazione dei fondi pubblici al via definitivo del progetto c’è poi un ulteriore scarto temporale perché il produttore vuole garantirsi tutte le coperture, e non solo quelle di rischio, ma anche di guadagno. E così passa il tempo. Progetti che nascono magari vivi e arrivano a volte morti, fuori tempo.

Se non si può parlare di una tendenza comune, in comune però i debuttanti hanno la tendenza ad ambientare le loro storie nelle città d’origine o dove vivono. Un po’ per ragioni economiche, un po’ per comodità, oltre che per scelta, la gran parte dei film d’esordio è girato in Italia. Il maggior numero di registi è romano e il maggior numero di film ha come set urbano Roma, poi Napoli e Milano. In comune molti hanno anche il genere. Oltre il 60% si sente a proprio agio nel genere drammatico (storie ispirate a fatti realmente accaduti, racconti di gente comune, vicende personali). Sono storie che si situano nella dimensione domestico-realistica segnate dall’esibizione del quotidiano, ora attraverso il metateatro ora attraverso il minimalismo narrativo e contenutistico delle sfortune lavorative, dei piccoli equivoci della vita di tutti i giorni, delle disavventure amorose. Il 38% opta per il genere commedia tra neosentimentalismo borghese e neocommedia all’italiana, tra problemi adolescenziali e generazionali e neocarinismo da fiction televisiva.
Si potrà anche condannare, ma “il cinema di papà” riesce a fare meglio? La “Cosa”, il “Nuovo cinema italiano” non eccelle forse in originalità, ma nemmeno tocca le punte di bassa qualità professionale che caratterizzava i film d’esordio degli anni Ottanta e anche dei primi anni Novanta dove si trovavano opere anche importanti in mezzo ad una marea di oscenità. Oggi, forse, si trovano opere importanti e decisive in mezzo ad una tranquilla medietà. Ed è anche vero che la “Cosa” ha dato visibilità a frammenti del Paese spesso ignorati dagli altri media, ha dato un volto a territori di provincia inesplorati, ha reso protagoniste vite ai margini dell’universo tv-centripeto. Basterebbe questo a renderlo un oggetto degno di uno sguardo critico meno sbuffante e superficiale. Poiché è vero che il nuovo cinema italiano è più un corpo estraneo che un corpo compreso dalla critica. Estraneo per la sufficienza con cui se ne parla, estraneo per la comparazione con l’attenzione con cui si analizza anche il più perduto dei prodotti lontani da Roma.

Nelle riviste si trattano, è innegabile, i singoli film ma è rarissimo trovare analisi più complessive della situazione generale come invece accade per altre cinematografie (quanti sono invece i saggi sul nuovo cinema sudcoreano, o taiwanese, o hongkongese?). E quando lo si affronta, lo si accusa incessantemente di opacità, di anemia, impotenza narrativa, mancanza di professionalità. Eppure, se facciamo una piccola verifica mentale mettendo in fila i nomi di neo cineasti italiani che negli ultimi anni hanno realizzato opere interessanti, di qualità stilistica e narrativa e in grado di trattare argomenti ricchi e non pretestuosi, ne viene fuori un panorama tutt’altro che disprezzabile. Proviamo a fare questo gioco della memoria secondo un gusto non solo personale ma anche basandosi sulle recensioni critiche: Vincenzo Marra (Tornando a casa), Saverio Costanzo (Private), Francesco Munzi (Saimir), Salvatore Mereu (Ballo a tre passi), Costanza Quatriglia (L’isola), Daniele Vicari (Velocità massima, opera prima dopo quella co-firmata con Guido Chiesa, Non mi basta mai), Francesco Patierno (Pater familias), Emanuele Crialese (Respiro), Paolo Sorrentino (L’uomo in più), Giuseppe Rocca (Lontano in fondo agli occhi), Paolo Franchi (La spettatrice). Sono autori che hanno ottenuto premi e riconoscimenti in festival nazionali e internazionali e in alcuni casi anche un risultato con il pubblico delle sale. Una cinematografia che produce un’ottantina di film all’anno e che è in grado di far esordire una ventina di buoni registi debuttanti in cinque anni, anche se non talenti immediati e universali, non crediamo possa dirsi in pena di esordi qualitativi. Inutile continuare a ribadire che in Francia la situazione è migliore: se guardiamo la Germania, la Gran Bretagna, la Spagna non siamo messi peggio.

La cosa curiosa di questi nuovi registi sono il cinema e gli autori di riferimento. Leggendo le dichiarazioni e le interviste rilasciate da una quarantina di debuttanti, i registi di formazione o di influenza sono in ordine: Kieslowski, Truffaut, Kubrick, De Palma, Scorsese, Tarantino, Kaurismaki, Kiarostami. Pochissimi citano autori italiani. Qualcuno cita Pasolini, Fellini e Leone. Nessuno il Neorealismo. Nel DNA dei nuovi autori italiani non c’è quasi traccia di Rossellini, De Sica, Visconti e nemmeno di Antonioni. E’ una generazione che ha cambiato modelli di riferimento o che conosce poco il cinema italiano del dopoguerra e poco anche le nouvelles vagues degli anni Sessanta. Non è un bene o un male in sé: è una constatazione che riflette un’esterofilia che segue la cinefilia dominante. E’ una generazione che ha visto molto cinema e che è cresciuta ontologicamente cinefila, ma, come diceva il grande Frank Capra: «Io ho mangiato cinema per tutta la vita, ma questo non significa saperlo cucinare». Non è quindi detto che i modelli alti a cui i debuttanti si rifanno significhi poi “saper cucinare” buon cinema: restano solo un riferimento, non si fanno scuola o stile, o qualità. E’ una cinefilia in gran parte sterile. Tuttavia, nonostante carenze drammaturgiche, sceneggiature bislacche, qualche rimasuglio dell’eterno vizio solipsistico, i registi del nuovo cinema italiano, nuovo perché di esordienti, sembrano ritrovare il piacere di non rinchiudersi solo in appartamenti stretti, triangoli amorosi, commedie generazionali, cercando più la battuta che le psicologie dei personaggi, ma anche di aprire delle finestre sul mondo. Sembrano ritrovare il piacere di raccontare andando oltre il caso singolo per aprirsi ai casi della società nel suo complesso. Purtroppo, non sono molti perché la gran parte degli esordienti racconta quasi sempre (più dell’80%) al presente, ma non sempre racconta il presente. Si ferma al minimalismo della quotidianità, alla superficie della Storia, condendo i film di dialoghi sterili, piatti, pleonastici dovuti a registi che, credendosi capaci, scrivono da sé la sceneggiatura. Una scelta non sempre di autonomia creativa, ma dovuta a volte alla sottovalutazione del problema e altre alla mancanza di mezzi finanziari. Come se la sceneggiatura fosse un impiccio necessario, per il quale non è il caso di spendere né troppo tempo né eccessiva fatica e senza dover ricorrere agli specialisti. E qui che si sente la mancanza di produttori veri, che rischiano in proprio, e che costringano il regista ad affidarsi a mani esperte per la scrittura. Uno per tutti: Michelangelo Frammartino, il regista de Il dono, ammette che «preparare un film è raccogliere elementi, più che scrivere e la scrittura arriva solo in una fase meramente produttiva in quanto, si sa, senza sceneggiatura si pensa che non ci sia progetto». Ma non per tutti è così. Quando il regista considera con la dovuta attenzione la fase di scrittura le cose cambiano. Per Pater familias, Francesco Patierno ha impiegato ben due anni scrivendo ben undici diverse stesure della storia di Massimo Cacciopuoti. E il risultato si vede.
Un numero non indifferente di opere prime nasce dall’allungamento di un cortometraggio, da un episodio a cui se ne aggiungono altri. L’operazione in qualche caso funziona, in altri non regge perché è una storia debole o perché viene meno l’omogeneità del racconto. Anche questo è un segno di debolezza strutturale e non ha nulla a che fare, tranne le dovute eccezioni, con un’operazione di ricerca.
Infine, visto che siamo un sindacato dei critici, vediamo che opinione hanno gli esordienti nei confronti della critica. Le opinioni sono generalmente buone se le critiche sono state buone. Se non sono state buone i registi ritengono soprattutto che i critici non abbiano capito le ragioni produttive che stanno alle spalle di certe debolezze. Dicono anche di peggio. Vediamo alcune di queste opinioni: Franco Bertini (Tutto in quella notte): «La critica mi ha un po’ deluso, perché non è riuscita a capire il valore di questo film: un’opera girata con pochi mezzi, con dei bravi attori, con una storia ben scritta. Per cui, vedere titoli come “Troppo povero per essere riuscito”, mi ha amareggiato». Lapidario Arcangelo Bonaccorso (Bonjour Michel): «La critica, il giorno dopo, non lascia traccia nella memoria collettiva, la dimenticano tutti. Serve all’autore». Stefano Pasetto (Tartarughe sul dorso) non è indulgente: «Ho incontrato una pericolosa dilagante cialtroneria. Non invoco alcuna indulgenza a favore degli esordienti, però competenza sì. Vedo piovere esaltazioni e condanne sommarie, prive di qualsiasi apparato critico o di strumenti estetico-linguistici. Non si può passare dall’uncinetto all’hobby della stroncatura con la stessa facile noncuranza». Elisabetta Sgarbi (Notte senza fine) si difende con l’ovvietà: «Come dice Oscar Wilde, quando i critici sono in disaccordo tra loro, l’autore è in pace con se stesso». Giancarlo Bocchi (Nemaproblema) si lancia in un’ipotesi non poi tanto ardita: «Mi pare che il movimento di rinnovamento della critica, iniziato nel dopoguerra, sia definitivamente terminato negli anni ’80». Claudio Fausti (Movimenti) dimentica i sempre più microscopici spazi lasciati dai caporedattori ai critici: «La cosa più deludente, che riguarda coloro che si occupano di cinema in questo paese, è che non vengono fatte critiche serie: si compilano solo recensioni molto spicciole, in cui si deve dichiarare in poche righe quello che si pensa di un film; non si scende a fondo, non si affronta nulla in maniera analitica». Per David Grieco (Evilenko): «Quando si leggono delle recensioni gentili, si capisce pure che sono ipocrite e non ti fanno fare nemmeno dei passi avanti». Più lapidario Alessandro Valori (Radio West), la cui opinione merita tutta la nostra attenzione: «La critica deve essere comunque costruttiva: se un film non ti piace non ne parli». Amen.

Giuseppe Ghigi

Si ringrazia Cristina Camarda per l’utilizzo di dati statistici e di alcuni estratti d’interviste contenuti nella sua tesi di laurea “Esordire in Italia dal 1990 al 2000”.


di Giuseppe Ghigi
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