Convegno SNCCI Prato: La critica vs il cinema italiano

Il titolo del convegno è volutamente un po’ paradossale, perché prefigura quasi una battaglia, una contrapposizione.

La notte Antonioni

Il titolo che abbiamo deciso di dare a questo intervento – La critica vs il cinema italiano – è volutamente un po’ paradossale, perché prefigura quasi una battaglia, una contrapposizione, e quindi due interlocutori dotati di una loro consistenza, di una certa forza da opporre uno contro l’altro. In realtà, come tutti sanno, parliamo di due interlocutori abbastanza dimessi, ormai quasi ai margini del sistema multimediale nazionale. E se questa condizione è forse ancora aperta per il cinema italiano, è invece purtroppo radicata per la parte che più ci interessa, la critica cinematografica. Almeno questo è il mio parere, forse troppo pessimista, ma qui abbiamo l’occasione per aprire una discussione sul tema.

Lo stato della critica cinematografica corrisponde in modo abbastanza puntuale alla situazione – quella vera, però, oggettiva e non illusoria – del cinema italiano. Questo è stato (ed è) vero nei momenti negativi, di stagnazione, di crisi, e anche in quelli, certamente più rari, di positività, di accenni di risveglio, addirittura di sviluppo. Per venire al punto, dico che si può capire meglio lo stato di grave crisi in cui versa attualmente, più che la critica cinematografica (che qua e là, riesce a difendere le posizioni), soprattutto l’esercizio del fare critica, proprio nel momento in cui il cinema italiano sembra tornato a battere un colpo.

Almeno a leggere i giornali di categoria, ma anche le pagine dei quotidiani dedicate allo spettacolo, si respira in queste settimane un’aria di euforia, perché il cinema italiano si mostra finalmente in grado di competere con le cinematografie più importanti. Naturalmente la competizione, il confronto, si svolge quasi tutto a livello commerciale. Ma questo sembra essere del tutto secondario per i commentatori.

Ad aprile, nei primi cinque posti della classifica degli incassi, ci sono tre titoli italiani (La notte prima degli esami, Il mio miglior nemico, Il caimano). Risultato che si aggiunge e consolida quello del primo trimestre 2006, in cui, grazie anche al buon successo del film di Pieraccioni, il cinema italiano passa dal 21,3% al 34,6% sulla percentuale incassi (+13%). Ma restiamo ad aprile. Tre film italiani nei primi tre posti della Top Ten incassi è un avvenimento – dicono gli esperti – che non si registrava dal lontano 1995. I toni dei commenti sono stati tutti trionfalistici. Il Presidente dell’Agis ha detto che per una cinematografia dalle grandi tradizioni come quella italiana una percentuale del 40% del mercato dovrebbe: «Rappresentare la normalità, non l’eccezione».

Il Responsabile del maggior circuito delle sale della capitale ha detto: «Anche negli anni Settanta il pubblico andava a vedere i nostri film, ma il più delle volte usciva dalla sala profondamente deluso». Sono andato a controllare e mi sono accorto che in quegli anni i film italiani che si andavano a vedere erano quelli di Antonioni (Zabriskie Point, Professione reporter), Ferreri (La grande abbuffata, L’ultima donna), e poi i film di Monicelli, Risi, Comencini e così via. Invece adesso, dice sempre il Responsabile del Circuito: «La gente esce dalle sale soddisfatta; al di là dei numeri e delle presenze il nostro cinema torna ad essere amato e considerato».

Anche il Press Agent Enrico Lucherini ha detto la sua: «Il successo dipende sostanzialmente dalla qualità delle singole pellicole; dopo tanto cinema noioso, sta emergendo una generazione di registi che non ambisce a realizzare dei film autoriali, ma vuole raccontare delle storie in grado di interessare ampie fasce di spettatori. E il pubblico, che è sempre più attento di quanto normalmente si pensi, se n’è già accorto e sta rispondendo alla grande».

E’ stato anche detto che, alla luce di questi risultati, si potrebbe azzardare che stia accadendo per il cinema ciò che si è registrato nella fiction televisiva: il successo nascerebbe principalmente dalla voglia di rispecchiarsi in storie e personaggi che ci appartengono. Ecco, tutto questo dibattito ha invaso pagine e pagine dei giornali, si sono fatti raffronti economici e statistici, ci sono state interviste e dichiarazioni di addetti ai lavori. Non c’è stato, però, alcun spazio per la critica. Il risultato è che si è nascosta la cosa più rilevante: il cinema italiano sta vivendo una stagione drammatica e amara in termini di qualità e quantità, e che soprattutto rischia di essere irreversibile.

Con il taglio del FUS, con l’applicazione della legge vigente sul cinema, ma anche per certi umori che si respirano negli ambienti che ispirano le scelte di politica culturale del paese, in certe prese di posizione di tuttologi alla moda (un’eco evidente è l’enfatizzazione del business, del box office, delle ragioni del pubblico), nel 2006 il cinema italiano produrrà 50/60 film (quasi un record negativo). Altro che grande cinematografia capace di conquistare il 40% del mercato e competere con il cinema di lingua anglosassone.

Di più. Ci sono decine e decine di film italiani che non riescono ad uscire nel circuito, solo per mancanza di spazi disponibili e per la presenza di una vera e restaurata censura del mercato (molti di questi film sono stati ultimati da uno-due anni e sono ormai avviati ai cellari delle banche e dei ministeri; ma ci sono anche titoli che potenzialmente avrebbero tutte le carte in regola per imporsi, come i film di Andò, Torre, Sciarra e tanti altri).

Di più. Una generazione di giovani autori italiani, esponenti del cinema più interessante e vitale realizzato negli ultimi anni, fanno fatica a mettere in piedi il loro film successivo (e penso ad autori come Garrone, Munzi, Piva, Marra, Turco, Patierno, ecc.).

Gli autori più coraggiosi e dotati, più interessati a un cinema personale e di ricerca, mai come oggi si sentono isolati e abbandonati a se stessi, alle prese con problemi sempre più grandi delle loro possibilità e che comunque li allontanano dal momento che dovrebbe meglio riguardarli, quello creativo. Essi non hanno produttori a cui appoggiarsi (e quelli che trovano sono deboli e privi di risorse e agganci); non hanno una distribuzione su cui fare riferimento (e chi è più debole si trova spesso alle prese con autentici pirati); non hanno più neppure una critica cinematografica con cui confrontarsi, trovare un sostegno, una guida.

Questa è la situazione del cinema italiano e non quella rappresentata nel dibattito un po’ drogato e stordente di chi fa la somma degli incassi di Pieraccioni e Benigni, Verdone e Moretti. Il fatto è che da quel dibattito, tutto autoreferenziale e bottegaio, è del tutto assente un interlocutore fondamentale come la critica cinematografica; la conseguenza è che viene assunto come punto centrale, finalmente indiscutibile, il gusto del pubblico, e come dato accidentale, se non quasi irrilevante, la qualità estetica e ideologica dell’opera, il giudizio della critica. Una volta questo dato avrebbe scandalizzato, oggi non più.

Quindi il problema da discutere è l’assenza della critica cinematografica. Un’assenza che purtroppo non è episodica, ma è diventata strutturale. Non si tratta più, infatti, dello spazio residuale lasciato dai media al momento dell’approfondimento o della riflessione teorica, si tratta invece di una vera e propria espulsione dal dibattito e dal sistema cinematografico.

All’inizio ho ricordato l’assenza della critica nel dibattito sul ritorno del cinema italiano nella Top Ten incassi, ma è possibile fare un altro esempio. Si è verificata praticamente la stessa cosa durante la polemica scoppiata sulla distribuzione dei film “in uscita” sul videotelefono. Le liti, le minacce di sciopero, le serrate, hanno visto impegnate le categorie degli esercenti e dei distributori. Ho sentito poche voci da parte degli autori (anzi qualche regista si è affrettato a sposare la causa) e praticamente il silenzio assoluto da parte dei critici, come se il problema della qualità della visione, l’esigenza del rispetto del prodotto film e del pubblico non fossero prioritari per chiunque ami e studi il cinema, non fosse un tema su cui ingaggiare una battaglia a difesa della cultura. Eppure è stato così.

Di silenzio in silenzio, arretramento dopo arretramento, da sconfitta in sconfitta, la situazione diventa sempre più grave e, appunto, strutturale. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti e fanno parte delle esperienze professionali di ognuno. Le operazioni di lancio e marketing di un film sono ormai costruite in modo da ignorare del tutto il momento dell’incontro con la critica cinematografica. Questo è un dato ormai generalizzato, che vale per i film-panettone di Aurelio De Laurentiis, ma anche per i film d’autore di Nanni Moretti. Questa è una situazione che coinvolge tutti, e che vede vittime allo stesso livello, autori e critici cinematografici.

Bisogna riconquistare quindi una base di confronto, un dialogo vero. Per quanto ci riguarda questo significa riconquistare ruolo e prestigio. Non inseguendo il box office, né dando legittimazione critica al gusto più retrivo e agli interessi più primari del pubblico, ma viceversa continuando a dare attenzione al cinema di qualità, al cinema che non si omologa ma difende un’autonomia, uno specifico narrativo, e per questo è anche il più esposto e debole. Si deve puntare sulla peculiarità della funzione critica, sfidando anche l’impopolarità e il cono d’ombra, difendendo i propri spazi di autonomia (anche piccoli, perché non è detto che sarà sempre così), difendendo un gusto non votato al clamore della pubblicità o dell’omologazione del gusto vincente: non è vero che i film premiati dal pubblico siano sempre da portare ad esempio e non è vero che il pubblico abbia sempre ragione. Tuttavia senza indulgere allo snobismo fanatico o alla specializzazione estrema (quella che svolge i suoi rituali alle tre di notte su Raitre o inneggia a Ciprì e Maresco qualsiasi cosa facciano o ripetano).

E’ vero quello che dice l’Esercente citato, a proposito degli anni Settanta, ma, aggiungo io, anche negli anni ’50 e ’60 il grande pubblico si teneva alla larga dai capolavori di Rossellini e De Sica, come da Sotto il segno dello scorpione dei Taviani o Dillinger è morto di Ferreri. Erano tutti film accusati di annoiare il pubblico, ma malgrado questo la critica svolgeva il suo ruolo, partecipava al dibattito culturale, non irrideva quel cinema per inseguire i film di Mastrocinque o i sequel di Don Camillo e Ciccio e Franco. Le rivalutazioni sono venute dopo e fanno parte della nostra stagione.

Non è quindi solo un problema di spazio e di opportunità. Sono abbastanza vecchio per poter essere un testimone di quegli anni Sessanta, e ricordo che gli spazi dedicati alla critica cinematografica erano comunque ridotti e sempre a rischio. C’era una forbice ampia tra il giudizio critico e la risposta del pubblico, ma questo non era un problema, anzi era considerata una garanzia, un punto da cui partire. Il problema – come sempre – dipendeva dal prestigio, dalla serietà delle argomentazioni, dal livello degli interventi. E torno al problema iniziale, la necessità di ripristinare un dialogo efficace tra critici e registi italiani.
All’inizio dell’anno è stato pubblicato su Repubblica un carteggio molto interessante tra Rossellini e Togliatti. Si tratta di uno scambio di lettere interessante non tanto per il fatto in sé: non è infatti la prima volta che un regista si lamenta per come è stato trattato dalla critica. E’ interessante invece che un regista come Rossellini, amareggiato per come i critici cinematografici dei giornali di sinistra hanno trattato un suo film, decida di rivolgersi al leader di un grande partito politico. Ed è più interessante ancora che quel leader, Togliatti, risponda, entri nel merito della questione critica e politica e addirittura rilanci il dibattito su come la critica cinematografica dovrebbe accompagnare e interagire i film più importanti.

Tutto questo accadeva negli anni Sessanta e fa parte della storia culturale del nostro paese. C’è uno scambio di opinioni, una richiesta di intervento, una risposta. Al di là del merito delle argomentazioni poste (ad esempio non si può condividere quanto dice Rossellini sul “cinema intimista”, alludendo ai film di Antonioni, o su Gioventù bruciata di Nicholas Ray), quello che importa sottolineare è che qui il cinema si confronta con la politica, e lo fa a livello altissimo: c’è un evidente rispetto personale, c’è attenzione reciproca, conoscenza dei problemi trattati, riconoscimento dei ruoli. Ma la cosa ancora più significativa è che politica e cinema interagiscono alla pari con la critica cinematografica, perché evidentemente la critica svolgeva una funzione, aveva un peso, era al centro del dibattito culturale del paese. Fatte le debite proporzioni, e scontate tutte le giustificazioni possibili, il paragone con la situazione attuale è desolante.

Oggi il rapporto tra politica e cinema è di fatto inesistente o negativo, basti pensare al taglio del FUS (un intervento addirittura punitivo). Il problema è che all’interno di questa situazione di stallo e di reciproca disistima, c’è la perdita di un rapporto vitale tra critica e cinema italiano. A segnalarlo sta l’indifferenza tra produttori e autori, in questo perfettamente uniti, nei confronti dei critici; dall’altro lato, una certa sottovalutazione, una malavoglia, un pregiudizio negativo della critica nei confronti dei film italiani produttivamente più deboli e con maggiori problemi, proprio quelli che avrebbero bisogno di attenzione e forse pazienza. Quante palle e palline nere, quanti omini sbadiglianti, per i film italiani, anche su quelli su cui forse varrebbe la pena di sottolineare gli errori e i margini eventuali di miglioramento. Questo dovrebbe essere il compito della critica, che raramente viene assolto.

Da un po’ di anni, per motivi professionali, mi capita di partecipare a delle iniziative di promozione del cinema italiano all’estero. E ho potuto constatare che molti film passati quasi nell’indifferenza in Italia, hanno avuto un certo successo in Germania e in Nord Europa, al punto di trovare distributori stranieri interessati all’acquisto e all’uscita sui loro mercati. E’ capitato per film come Un amore di Tavarelli, Ribelli per caso di Terracciano, Casomai e La febbre di D’Alatri, e così via.
Ma quello che voglio dire è che nel preparare i nostri cataloghi abbiamo spesso difficoltà a mettere insieme due-tre recensioni positive, che pongano riflessioni critiche di qualche interesse su questi film. C’è di fatto una separatezza tra critica e giovane cinema italiano. Mondi separati, abitati da chi invece ha problemi sostanzialmente comuni, per la sfida del cinema di qualità, per la sopravvivenza di ciò che ancora resta del cinema d’autore e indipendente.

Certo, oggi è impensabile fare quello che in Francia è normale, dove tra critici, autori e produttori indipendenti, c’è reciproco sostegno e attenzione ai problemi del cinema nazionale. Niente di simile capita in Italia, dove il cinema è un fenomeno vissuto in maniera segmentata, innaturale, un po’ nevrotica. Con l’autore lasciato solo a combattere battaglie perdute in partenza, contro produttori evanescenti, distributori inaffidabili, televisioni e mercato. Un cinema italiano senza tetto (pochi schermi a disposizione) né legge (il taglio del FUS), che prova fatica a raccontare il paese, ma soprattutto a farsi vedere. E’ un cinema sceso sotto una quota di produzione al limite della sopravvivenza. E tutti sanno che quando si fanno pochi film, non è vero che si fanno i film migliori. La selezione naturale, in un cinema dominato dall’economia mercantile, privilegia sempre il peggio (ovvero il sicuro invece che il rischioso e l’incerto); e quindi ecco lo spazio lasciato ai soliti attori, alle solite storie, agli stessi pacchetti produttivi (un po’ di Rai, un po’ di Cattleya, un po’ di produzione indipendente, ma fino a un certo punto). All’interno di questa situazione la critica cinematografica dovrebbe avere lo spazio e il dovere di svolgere il proprio ruolo.

Il vero pericolo per i critici è di accettare di essere “complici dell’esistente”, o “guardiani del gusto vincente”. Altro pericolo è che a forza di rinunce e ritirate, di snobismi e dimenticanze, l’esercizio critico venga lasciato agli altri. Credo che noi critici non dobbiamo metterci in gara nel fare prima, nel sorprendere o provocare di più; credo, invece, che dovremmo far forza sulla specializzazione e sulla peculiarità, perché alla lunga sarà proprio questa prerogativa e questa competenza che faranno vivere la funzione critica rispetto all’omologazione di un sistema dell’informazione superficiale e frenetico, senza più sorprese e desiderio.


di Piero Spila
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