Claudio Bertieri: freelance per curiosità
Un ricordo di Claudio Bertieri, venuto a mancare il 6 dicembre 2021 all'età di 96 anni. Una vita trascorsa con il cinema.
Un ricordo di Claudio Bertieri, venuto a mancare il 6 dicembre 2021 all’età di 96 anni. Una vita trascorsa anche con il cinema, a partire dai primi articoli pubblicati nel 1947.
Il suo primo articolo dedicato al cinema risale al 1947. Nel corso della sua lunga vita, Claudio Bertieri – scomparso a 96 anni il 6 dicembre scorso a Genova – non ha mai cessato di occuparsi a tutto campo di cinema; anche se in tale specifico interesse non si è certo esaurita la sua mai sopita curiosità per ogni forma di attività e di espressione culturale. In occasione dei suoi novant’anni mi chiese di scrivere qualcosa sulla sua carriera che non fu solo cinematografica. E a quell’articolo attingo per questo ricordo di un critico che a noi tutti a Genova appariva essere immortale.
Come critico cinematografico Claudio Bertieri ha tenuto rubriche settimanali o giornaliere su numerosi quotidiani e firmato molti articoli su gazzette e riviste; ha collaborato con cineclub e cinema d’essai (dal Film Club Genovese al Ritz d’essai) e curato tante personali di registi (prima fra tutte quella dedicata a Robert Flaherty nel 1952 al Parco dell’Acquasola di Genova); ha partecipato a giurie nazionali e internazionali, sovente col ruolo di presidente. Inoltre, ha scritto voci per prestigiose enciclopedie, quali l'”Enciclopedia dello Spettacolo” e “Filmlexicon degli Autori”; ha preso parte alla commissione di selezione di molteplici Festival, di alcuni dei quali ha curato anche l’ufficio culturale (Rassegna del Cinema latinoamericano di Santa Margherita, Mostra internazionale di Porretta Terme). È stato consulente per le attività cinematografiche del Comune di Genova e dei circoli aziendali dell’Italsider, Edison Volta, Finsider, dove lo conobbe anche Paolo Villaggio che proprio a lui s’ispirò per ironizzare sulla figura del critico cinematografico che obbligava i dipendenti a vedere e rivedere La corazzata Potemkin.
Ma i rapporti di Bertieri con il cinema non si fermano qui. Nel corso degli anni, ha infatti partecipato come relatore a molti convegni sul cinema, alcuni dei quali da lui stesso organizzati; sin dagli anni Sessanta, ha ideato e curato l’allestimento di varie Mostre specialistiche, sia in Italia sia all’estero, nelle quali ha mescolato sovente il suo interesse per il cinema con quello per i fumetti. Ha programmato anche alcune trasmissioni televisive (dalle 4 puntate su Joris Ivens registrate per Rai 2 ai programmi curati per la sede regionale della Liguria) e ha pubblicato una trentina di libri, molti legati alle rassegne organizzate per vari festival (negli ultimi anni, significativi sono stati i quaderni sugli attori curati per il Comune di Borgio Verezzi). Per tutte queste iniziative e pubblicazioni, Claudio Bertieri è stato più volte premiato e nel 2002 ha ricevuto dall’Università di Genova anche la Laurea Honoris Causa in Scienze dell’Educazione, facoltà presso la quale tra il 2003 e il 2006 ha svolto anche l’attività di professore a contratto.
Non si può certo dire che nella sua vita Claudio Bertieri abbia scelto di riposare sugli allori o anche solo di chiudersi dentro al confortevole recinto della specializzazione. E proprio qui sta, mi sembra, quella che è forse la caratteristica più originale ed evidente del rapporto di Claudio con il cinema e con la vita: innanzitutto, la curiosità. Il piacere di fare, dire, ascoltare, raccogliere e collezionare, esplorare il nuovo al fine di meglio conoscerlo. Probabilmente è stato proprio per questo che egli non ha mai voluto accettare un posto fisso e ha trascorso tutta la propria lunga esistenza da “freelance” (oggi si direbbe da “precario”). “Freelance”, Bertieri lo è stato per scelta e per vocazione, mai per necessità o per mancanza di alternative. È proprio nel nome di questa libertà interiore che egli non si è mai di fatto legato a nessun dei molti movimenti cinematografici che pur ha visto nel corso degli anni nascere e morire, a volte anche essere oggetto di riscoperta. Questa mancanza di identificazione o di “legame”, però, non ha mai significato per Claudio indifferenza, essendo tale non diretto coinvolgimento soprattutto l’effetto di un pragmatismo culturale che lo ha portato sempre a guardare il presente, nella prospettiva del futuro; ad accettarne sul nascere le prime avvisaglie come le più consolidate manifestazioni; senza mai indulgere al rimpianto del tempo passato. Così è stato per il Neorealismo come per le Nouvelle Vagues degli anni Sessanta, per il primo amore per il documentario come per i più esasperati sperimentalismi formali. L’autentica passione per il cinema di Bertieri non è mai stata sfiorata dalla pregiudiziale ideologica. E questo lo ha tenuto lontano sia dall'”aristarchismo” trionfante negli anni Cinquanta, sia dalla rivincita della “cinéphilia” che sulla base del modello francese, a partire dagli anni Sessanta, ha iniziato a diffondersi anche in Italia.
Sono stati quelli gli anni in cui ho conosciuto personalmente Claudio, apprezzando subito due sue qualità d’immediata evidenza: da una parte, la sua eccezionale memoria cinematografica; dall’altra, la sua straordinaria capacità di comunicazione verbale, che trovava modo di esprimersi compiutamente nelle presentazioni che allora i critici cinematografici genovesi erano soliti accompagnare alle visioni, con dibattito, di un numero scelto di film, soprattutto alla domenica mattina. Nel corso di quelle presentazioni, Claudio parlava così come scriveva: grande chiarezza espositiva, ricchezza d’informazioni, competenza nell’arte di strutturare il discorso in forma di suggestione comunicativa. Il cinema lo considerava, innanzitutto, come un mezzo di comunicazione, da analizzare e mettere in rapporto in primo luogo con ciò che si vuole comunicare, con come lo si comunica, con la tradizione della comunicazione e, soprattutto, con la realtà sociale che sta alla base dell’arte del comunicare.
E
proprio questa scelta di libertà intellettuale è stata
probabilmente quella che lo ha portato a parlare del cinema
soprattutto attraverso il fare: Mostre, Rassegne, Festival,
collezionismo di libri, riviste, manifesti, locandine o fotografie.
Soprattutto lo ha condotto a non essere mai obsoleto, sorpassato,
fuori moda, proprio perché animato da quella disponibilità al
dialogo nella quale si manifesta da sempre la sua curiosità per
tutto ciò che è: esseri umani, film e prodotti della
comunicazione, movimenti culturali intesi nel senso più lato.
Bertieri critico non ama mai teorizzare. Il concetto stesso di
teorizzazione sembra essergli estraneo. Nei suoi scritti, come nelle
sue conversazioni o comunicazioni ai convegni, Claudio Bertieri
analizza, confronta, colloca le opere nel loro contesto storico,
individua le linee portanti di una cinematografia nazionale o di un
particolare momento della storia del cinema; ma non si addentra mai
nella definizione ideologica di ciò di cui sta scrivendo o parlando.
E ciò non perché non ne possieda gli strumenti conoscitivi, ma
semplicemente perché la teoria propria non gli interessa, almeno
sino a quando rimane tale. Questo spiega molte cose anche a proposito
del suo modo di scrivere e di organizzare le forme della
comunicazione. Spiega, ad esempio, perché la sua attività critica
tendeva a rifuggire da opere troppo sistematiche (quali ad esempio
una monografia d’autore o un libro completo su un movimento
cinematografico); spiega perché egli abbia saputo dare il meglio di
sé soprattutto nelle Mostre, nei collage, negli accostamenti anche
sorprendenti, piuttosto che in specifiche scelte di campo alle quali
dedicare la propria energia intellettuale. In questo senso, Bertieri
è sempre stato un collezionista, un assemblatore di punti di vista
sul cinema, uno storico piuttosto che un teorico. Inutile cercare
anche in questa direzione un qualsiasi discorso che abbia il più
lontano sapore di definitivo. La libera vocazione di “free
lance” propria di Bertieri lo spinge sempre a lasciare aperta la
via al nuovo, quindi a dare il primato al fare (e Claudio, pur senza
esibirne la fatica, è stato sempre un grande lavoratore),
all’accumulo dei dati, agli accostamenti più sorprendentemente
produttivi. Ecco, le caratteristiche più qualificanti del rapporto
tra Bertieri e la critica cinematografica, nel giorno della tristezza
di non poter più discorrere con lui, si possono oggi, senza alcuna
ambizione di essere esaustivo, forse individuare nella ricchezza
d’informazione che Claudio alimentava attraverso gli apporti di una
straordinaria memoria, entro la quale sembra sparire la fatica della
ricerca e dello studio che pur costantemente l’alimentavano. Poi
c’era l’asciutta essenzialità della scrittura, che preferiva
esprimersi attraverso testi brevi e sempre molto concreti, nei quali
era quasi impossibile individuare l’enunciazione di una teoria,
perché – come già sottolineato – per natura e per vocazione Claudio
ha sempre diffidato del pensiero astratto, preferendo di gran lunga
che questo fosse rielaborato dal lettore o dall’ascoltatore come
conseguenza del suo scrivere e del suo dire nella forma più semplice
e diretta possibile: così era nei suoi articoli per le rubriche dei
giornali come nelle sue presentazioni dei film nei cinema genovesi,
nei suoi libri di storia delle cinematografie nazionali come nella
struttura espositiva delle sue mostre fotografiche a tema. E ancora,
nelle pagine riccamente illustrate di ComicShow
come
in tutta (o quasi) la sua riflessione critica sul cinema, c’è sempre
quel gusto molto personale per la contaminazione dei linguaggi e
delle forme di comunicazione.
Claudio Bertieri non è mai stato un “cinéphile” nel senso ristretto della parola, perché per lui il cinema non è mai stato sinonimo della vita “tout court”, ma caso mai la sua manifestazione più amata, sempre capace comunque di convivere con tanti altri amori che la vita gli offriva: i fumetti e il teatro, la letteratura e le arti figurative, il collezionare fotografie e organizzarle in forma espositiva. Per Claudio, che di cinema scrive da settant’anni, il cinema è innanzitutto un modo di guardare la realtà, uno scorrere della vita a 24 fotogrammi al secondo (poco importa se in bianco e nero o a colori, muto o parlato, ripreso dal vivo o disegnato o elaborato da un computer), nel quale più che immergersi (come tendenzialmente fa il “cinéphile”) è soprattutto bello e giusto e vero gettare lo sguardo stando a contemplarlo sulla sponda della coscienza; godendo delle sue bellezze e delle sue articolazioni di linguaggio, delle storie che racconta e del fascino delle sue forme che scorrono – proprio come la vita – nello splendore del grande schermo.
di Aldo Viganò