Cinque domande a Giona A. Nazzaro – Delegato Generale della Settimana Internazionale della Critica 2016
La Settimana Internazionale della Critica ha superato la boa delle trenta edizioni. Una strada molto lunga e densa di periodi interessanti. Il lavoro svolto dalla Commissione che ha appena concluso il suo mandato, composta dal delegato Generale Francesco Di Pace, Anna Maria Pasetti, Nicola Falcinella, Giuseppe Gariazzo e Luca Pellegrini, ha fornito dei riscontri sempre positivi e dei risultati importanti.
Adesso il testimone è passato a te e ai tuoi compagni di avventura Beatrice Fiorentino, Luigi Abiusi, Alberto Anile e Massimo Tria.
Quali prospettive può avere secondo te la manifestazione di punta del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani?
Premesso l’ottimo risultato ottenuto da Francesco Di Pace e dagli altri ex membri della commissione SIC, ritengo che ci siano molti margini per capitalizzare su quanto è stato realizzato per investire nel futuro. La parola chiave è “curiosità”. Quello che stiamo vivendo è un momento fertilissimo per il “nuovo cinema”. Tutte le trasformazioni che hanno messo in discussione la produzione, la realizzazione e la distribuzione sono opportunità per ripensare il lavoro sia dei festival che di una rassegna come la SIC, la cui missione è di dissodare i terreni ai margini del visibile. Si tratta di scegliere di percorrere anche i sentieri apparentemente più impervi, per ritrovare il piacere del gioco e dell’avventura.
Lavorare sulla ricerca di opere prime è una sfida sempre stimolante. La tua esperienza di giurato in festival internazionali e di critico molto attento alle cinematografie internazionali ha permesso di farti un’idea precisa sul livello dei registi esordienti che hai incontrato in giro per il mondo?
Il peso specifico minore del dispositivo di riproduzione ha fatto sì che gli esordi siano aumentati esponenzialmente. Soprattutto nel documentario. Nel cinema di finzione, ammesso sia ancora lecito utilizzare queste categorie, le cose si muovono forse con minore velocità ma, con il venire meno degli steccati tradizionali, abbiamo visto emergere, solo negli ultimi anni, nomi di grande interesse come Ana Lily Amirpour, Burhan Qurbani e Corin Hardy. Per quanto il cinema italiano, fin tanto che cineasti come Fabio Bobbio troveranno possibilità di realizzare i loro film, il nostro cinema riuscirà sempre a dialogare alla pari con quanto emerge nel resto del mondo.
Per te il concetto di cinema di qualità è sempre perfettamente sovrapponibile a quello di cinema d’autore?
La “qualità” come categoria astratta m’insospettisce. Temo le categorizzazioni in quanto scorciatoie della pratica critica. Rossellini, per esempio, non ha mai fatto film di “qualità” nel senso in cui utilizziamo oggi tale definizione. Eppure, per quanto mi riguarda, non c’è qualità più alta del cinema rosselliniano.
Sia per quanto riguarda la “qualità” e il cinema “d’autore” bisogna ampliare le potenzialità dello sguardo. Bisogna gioire delle sfide che offre il cinema contemporaneo, cambiare passo rispetto al cinema italiano, smetterla di essere gratuitamente ipercritici. Per citare Adriano Aprà, al cinema italiano bisogna volere bene. Dialogare con le imperfezioni e le urgenze. E, per quanto mi riguarda, evitare l’abbraccio rassicurante del già noto. Evidentemente questo è un lavoro che va fatto con il pubblico e non contro il pubblico. Il cinema è un dialogo permanente. Se da esso si esclude il pubblico, qualsiasi proposta di rinnovamento è persa in partenza.
Quale pensi possa essere il futuro dei festival del cinema?
Nel mondo dei festival è cambiato tutto. In un festival s’intrecciano molteplici ramificazioni. Bisogna avere comprensione di come le cose si muovono, tentare se possibile di anticiparne alcune e, soprattutto, essere consapevoli che il pubblico ormai si è trasformato in un insieme di “pubblici” dai saperi fortemente differenziati. Non si tratta di mettere insieme programmi eclettici, quanto di mettere in scena le numerose trasformazioni che investono il cinema. E su queste tentare di costruire ipotesi di dialogo. E questo è soprattutto un lavoro critico. Il luogo festival, per quanto mi riguarda, resta ineludibile: luogo d’incontro, celebrazione del cinema, possibilità di resistenza, ipotesi di comunità.
Quali sono i tuoi auspici riguardo la prossima Settimana Internazionale della Critica che ti avvii a dirigere?
Mi piacerebbe intercettare, con la collaborazione dei miei compagni di avventura, alcune delle energie che attraversano il cinema contemporaneo, mettere all’ordine del giorno nomi nuovi, rilanciare ancora una volta il piacere della scoperta e dell’avventura. E, contestualmente, favorire sguardi diversificati e la critica cinematografica.
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di Maurizio G. De Bonis