Il cinema di Antonio Albanese tra gioia e dolore
Un'analisi, a cura di Gianlorenzo Franzì, della carriera cinematografica di Antonio Albanese.
Il travaso dalla televisione al cinema (magari con una fermata intermedia a teatro) è una modalità comune fin quasi dagli esordi della televisione.
È comunque un movimento che ha avuto il suo zenith -con veloce e repentino nadir- tra a fine degli anni Novanta e i primi anni Zero: da Zelig in giù, sono stati davvero tanti i comici che hanno fatto il grande salto. C’è chi ha trovato la sua giusta realizzazione e dimensione sul grande schermo, esprimendo le potenzialità che attraverso le gag televisive nessuno avrebbe pensato (Ficarra e Picone), chi ha avuto un picco proprio al cinema ma si è poi schiantato per un vuoto pneumatico di idee (Pieraccioni), tantissimi che sono durati meno di una folata di vento: e c’è poi chi invece la televisione l’ha usata e riscritta, approdando dietro e davanti la macchina da presa in maniera inevitabile e ineluttabile.
ROCK E SORRISI: DALLA RADIO ALLA PRIMA SERATA
Antonio Albanese, ad esempio, ha fatto parte di quella generazione di comici che si sono incontrati per un caso quasi fortuito in un programma cult (Mai Dire Gol della Gialappa’s), dando vita ad un fenomeno e ad un’epoca sociale e culturale pressoché irripetibile. Aveva iniziato tra radio e teatro: Magic Moment in fm dedicato alla musica rock, la Scuola d’arte Drammatica Paolo Grassi a Milano per poi capire che era la comicità il suo punto forte e sbarcare allo Zelig di Milano. Da lì ad Alex Drastico ed Epifanio il passo è breve: i suoi primi personaggi nascono in Su La Testa! (1992) di Paolo Rossi su RaiTre, per poi confluire in Mai Dire Gol. È proprio in questo geniale contenitore, avanguardistico e classicissimo allo stesso tempo, che Albanese mette a punto le sue intuizioni creando quelle maschere che lo accompagneranno nella sua carriera d’ora in poi.
Nella migliore tradizione della commedia, i personaggi di Antonio sono maschere e prototipi della nostra società. La nevrosi, l’alienamento, lo scardinamento affettivo della famiglia, l’ottimismo insensato e il vuoto ideologico sono la trama che Albanese intesse con cura e intelligenza, ben consapevole su quando andare sopra le righe e quando invece contenere la risata. Tempi comici perfetti, uno sguardo furbo e il volto di chi riesce a far sorridere solo con una smorfia: un talento purissimo affinato dallo studio e dall’esperienza ma frutto di un’analisi tagliente e sottilissima, fatta in trasparenza con l’arma di una declinazione surreale della realtà sempre affilata.
GRANDI SORRISI, PICCOLI DOLORI
Per questo, fin da subito il cinema lo intercetta, con registi e autori che vedono chiaramente come le doti di Albanese vadano ben oltre la risata strappata in prima serata: Un’Anima Divisa in Due di Silvio Soldini (1993), Vesna Va Veloce (1996) e La Lingua del Santo (2000) di Carlo Mazzacurati, Tu Ridi dei fratelli Taviani (1998), La Seconda Notte di Nozze di Pupi Avati (2005), sono i primi film che lo vedono protagonista su grande schermo con un successo di critica immediato. E non è un caso se i registi che lo chiamano hanno in comune uno stile in sottrazione e la narrazione di piccole storie quotidiane di provincia: perché nonostante la capacità pirotecnica di far ridere, sotto le sue smorfie Albanese nasconde corde capaci di risuonare di un’emotività altissima, attraverso il guizzo degli occhi, la sfumatura di una lacrima, l’anticipazione di un dolore.
Perché i suoi personaggi nascono dal disagio di una società che li ha messi all’angolo e costretti all’alienazione: ed è la capacità dell’interprete a renderli pronti a mostrare la vulnerabilità sotto lo sberleffo. Più si ride forte, più si soffre in silenzio. L’esordio come regista arriva allora proprio tra Mazzacurati e Taviani, tra apologo morale e piccole vite di provincia: L’Uomo d’Acqua Dolce esce nel 1996.
L’UOMO D’ACQUA DOLCE
Il primo film da regista di Antonio Albanese usa uno dei suoi personaggi più acclamati come testa di ponte per arrivare sul grande schermo: tocca a Epifanio, personaggio timido e gentile con spessi occhiali da vista, al centro di una trama sottile con il protagonista felice marito e padre che perde la memoria e torna a casa dopo cinque anni.
Non si chiama Epifanio ma Antonio: e ha perso la memoria, il tempo, e non il cuore. L’Uomo d’Acqua Dolce è una commedia che vanta il soggetto di Vincenzo Cerami e le musiche di Nicola Piovani: tutto in linea con il mondo artistico di Albanese, con le emozioni in punta di penna che rievocano il cinema muto di Jacques Tati, l’espressività laconica e la gestualità dei cartoni animati. L’Uomo d’Acqua Dolce non mostra per niente gli anni che ha, e anzi il corpo comico di Albanese dovrebbe essere rivalutato per la sua intensità emozionale che si tiene sempre un passo indietro: è una recitazione contemporaneamente sovraccarica e sottratta, che gioca su quella strana malia che riesce a mantenere sottotono, puntellata dal fondo di malinconia che affiora qua e là.
Epifanio/Antonio è una maschera sorniona e geniale, tragicomica nel senso più pieno del termine, che ha un’essenza primordiale sotto un guscio quasi enigmatico. Sono pensieri fatti maschere, personaggi che vanno e vengono sullo sfondo, intonazioni ed espressioni facciali tra lo stupore e il grottesco che sottolineano la prova maiuscola di Albanese come regista esordiente: che inserisce sottotraccia i tanti rivoli che hanno creato il personaggio e in cui si frammenta senza perdere unitarietà di visione. L’egoismo imperante, l’immoralità di una classe borghese senza coscienza, la vacuità del benessere e del produrre il nulla, colorano il tessuto narrativo del personaggio centrale che rimane un atto d’innocenza dell’artista, il cuore speranzoso dell’attore che crede nei sogni.
LA FAME, LA SETE E I MATRIMONI IN CRISI
Nel 1999 esce La fame e la sete, un secondo film di quelli nati sull’urgenza del successo degli esordi. Tornano infatti le maschere e i personaggi: al centro questa volta c’è Alex Drastico, accompagnato però da Ivo Perego e Pacifico (il più riuscito, con una mimica che riprende la migliore comicità fisica). Il film riceve diverse nominations su diversi premi, come miglior attore protagonista ai David di Donatello, per la miglior colonna sonora (sempre Piovani) ai Nastri d’argento o una nomination come miglior attrice non protagonista ad Aisha Cerami ai Ciak d’oro, e pur essendo sostanzialmente una vetrina di caratteri televisivi di successo, riesca a trovare una sua dimensione tra la satira e un impianto drammaturgico graziato da un tour de force attoriale non da poco. Al centro del racconto c’è sempre un mondo imbarbarito dipinto con ironia, tra un ottimismo tronfio scalfito dalla crisi di fiducia dell’uomo postmoderno, mentre a denunciare l’imbarbarimento del nostro stare al mondo ci pensa l’inconsapevolezza opportunista di Alex Drastico.
La terza regia arriva nel 2002, con Il nostro matrimonio è in crisi: niente più maschere, perché inizia la trasformazione di Albanese. Il film è infatti uno spartiacque: prima di tutto perché dopo ci sarà una lunga pausa dalla regia (fino al 2018 con Contromano), e poi perché come spesso fisiologicamente accade i personaggi sullo schermo iniziano a mostrare la corda e si intravede il tentativo di inquadrare storie più costruite e drammaturgicamente più risolte.
Inizia infatti da qui un lunghissimo percorso di Albanese che come interprete di film altrui decostruisce e ricostruisce il suo stile espressivo, asciugandolo progressivamente, giocando ancora una volta sulla sottrazione e abbandonando l’enfasi del corpo per concentrarsi sull’espressività del viso.
Francesca Archibugi (Questioni di Cuore, 2009) e Carlo Verdone (L’abbiamo Fatta Grossa, 2016), ancora Soldini (Giorni e Nuvole, 2007), e poi Giulio Manfredonia (È già Ieri), Gianni Amelio (L’Intrepido, 2013), di nuovo Mazzacurati (La sedia della Felicità, 2014): tutti film nei quali la maschera di Albanese si assottiglia fino a coincidere quasi del tutto con il suo interprete.
Il campo è sempre la commedia, ma con quell’inflessione dell’anima che sfuma il dramma in malinconia: ma contemporaneamente ci sono anche film e registi nei quali Antonio riprende la capacità di ritrarre personaggi a tutto tondo, grotteschi e strabordanti, creando il politico Cetto Laqualunque e innestandolo in una trilogia di Manfredonia (Qualunquemente, 2011; Tutto Tutto Niente Niente, 2012; Cetto c’è, Senzadubbiamente, 2019)
ANTONIO C’E’
Se allora la parentesi di Cetto permette ad Antonio di rinfrescare e rimodernare le sue maschere creandone un’altra vincente, il percorso come attore continua affinando ancora di più il suo magistero interpretativo.
La partnership con Riccardo Milani (e Paola Cortellesi) per Mamma o Papà, il dittico Come Un Gatto In Tangenziale e il centrato Grazie, Ragazzi rappresentano un punto di arrivo insieme all’indimenticabile personaggio in L’Intrepido, il tiepido film di Gianni Amelio che vive solo grazie alle sistole del suo protagonista.
Tutto confluisce allora in Contromano, il quarto film da regista, che segna un distacco netto dalle sue produzioni precedenti: un distacco preceduto e preannunciato dalla regia della serie I Topi, fondamentale (quanto ingiustamente dimenticato dal pubblico e dalla critica) proprio perché il primo vero progetto nel quale il genio di Albanese può liberarsi e rivelarsi appieno. Tra sfumature malinconiche, impennate di humor nerissimo, vena iconoclasta, I Topi vive con una recitazione brillante e una regia lucidissima, partendo da una metafora felicissima e passando dal sorriso allo sghignazzo ma sempre con il giusto tatto e la giusta distanza.
Arrivando allora alle splendide, quadratissime interpretazioni per Milani, dove Albanese prende in giro in maniera sottile i pregiudizi dell’italiano medio e contemporaneamente riprende la sua maschera degli esordi, quella di Epifanio, e la irrora di mille sfumature diverse che coprono la distanza tra la malinconia e la serenità, spesso ricolma di tragedia. Ma ecco che qui incide il personaggio e lo spessore dell’artista: perché quella che Antonio restituisce non è mai una tragedia urlata, la serenità non è mai quella sbracata, la malinconia non è mai quella facilmente raggiungibile.
La straziante, perfetta grandezza emotiva della sua maschera viene dalla misura: sempre un passo prima del cedimento, sempre un passo dopo il furore. Come in Grazie, Ragazzi (forse il risultato più felice della collaborazione tra il regista e l’attore), Albanese è interessato a riprendere l’effettivo dramma della vita che si stende piano nella quotidianità, disteso tra l’urgenza umana e il cinismo necessario a sopravvivere ai marosi di ogni giorno.
È in questo modo che Antonio Albanese diventa un volto imprescindibile del cinema italiano, all’interno del quale sembra costituire un vero e proprio perno emotivo attorno cui far ruotare le storie, indifferentemente tra provincia e città, tra satira e denuncia, tra commedia e dramma: un chiaro intento sociale portato avanti con disarmante semplicità, e soprattutto con quella levità che è propria dei grandissimi.
di Gianlorenzo Franzì