Per una critica di valore
Interviene anche Alberto Anile nel dibattito generato da Piera Spila con il suo intervento sulla "critica del gusto". E parte da La corazzata Potëmkin, e dalla polemica di fantozziana memoria...
L’ultimo anno di liceo, il mio professore di lettere organizzò una lezione speciale di preparazione alla maturità. Eclettico e, per quei tempi, coraggioso, fece tra l’altro qualche riferimento cinematografico citando anche il capolavoro di Ejzenstejn. Fu investito da una grandinata di risate.
Sorpreso e disorientato, ebbe l’infelice idea di insistere, ripetendo il famigerato titolo: «È uno dei film più importanti della storia del cinema! La corazzata Potëmkin…» Un ululato ancora più forte gli bloccò la frase in gola. Umiliato, lo sguardo vitreo, recuperò la borsa e uscì dall’aula, meditando di abbandonare per sempre l’insegnamento. E ci volle la pazienza del preside per far tornare tutto alla normalità.
Avevo visto il film sovietico e conoscevo la scena del Secondo tragico Fantozzi; compresi quindi lo smarrimento e la disperazione dell’insegnante, punito per la sua stessa generosità. È un episodio al quale mi capita di ripensare spesso, anche perché mi anticipò in maniera plateale quanto grande ed equivoca possa essere la distanza fra critici e spettatori. Tra chi cerca di suggerire dei modelli di qualità e chi li respinge gettandoli allegramente al macero.
L’allarme lanciato da Piero Spila Contro la critica e i critici del gusto mette molte dita in una piaga che ai tempi del mio liceo era già purulenta. Nella prima metà degli anni Ottanta tonnellate di critica iperideologica (che per le passioni messe in campo si fa comunque rimpiangere) avevano creato un abisso fra cultura “alta” e cultura “bassa”, fra critici e platea. Una certa attitudine sacerdotale in chi officiava il rito critico, sui quotidiani, in tv, nei cineforum, stava allontanando spettatori vecchi e potenziali da film di valore, spingendoli verso il disimpegno più spudorato, e propagandando il dileggio di qualsiasi forma di analisi. Il mondo accademico diede il colpo di grazia con la semiotica, irrigidendo ancora di più gli steccati. Oggi che pure la semiotica ha fatto il suo tempo, pubblico e critica continuano a non essere conciliati; e visto che il cinema stesso è in preda a una trasformazione radicale che sembra a molti l’anticamera del coma, parte del pubblico lo ha abbandonato, votandosi tutt’al più alle serie tv guardabili su pc e cellulare.
Sia sempre lode all’incrociatore di Ejzenstejn, ai vermetti brulicanti sulla carne rancida, alla gloriosa carneficina sulla scalinata di Odessa, ma mi pare che in fondo siamo ancora allo scontro fantozziano tra fini esegeti e prosaici spernacchiatori, tra il partito preso di un gusto arduo quindi elitario quindi sopraffino, e lo sberleffo ignorante.
Leggo spesso la tentazione di venerare solo ciò che ha i presunti contorni del “film d’autore”, quello più festivaliero e indigesto: la retorica predilezione per l’orrido e il turpe (il “tremendismo” denunciato in letteratura da Fofi), l’inclinazione al realismo dettata in realtà dall’inadeguatezza del budget, un solipsismo scontroso e irsuto che rifugge lo spettatore come la peste, imponendo così nuovi clichet. Pure all’ultima Venezia, dove non sono mancati ottimi film e bravi critici, le recensioni più ricercate erano le vignette irridenti di Stefano Disegni, implacabili nel denunciare ampollosità e presunzioni dei cineasti in gara e dei loro arcigni sostenitori. Dall’altro lato ci sono i fan del popolare a tutti i costi, dai massimalisti del blockbuster ai maniaci della serie Z. Su una riva l’estasi penitenziale del cinema del reale e sull’altra l’isterismo fanzinaro per l’eterno carnevale dei supereroi.
L’alterigia dell’“intenditore” che vuol imporre la sua visione (il suo gusto) alla platea non è più nobile dell’urlo di Paolo Villaggio. Non lo è quando il modo di criticare mira a discorrere aristocraticamente fra happy few, a far finta di divulgare il verbo dell’“importanza” schifando i non iniziati e così respingendo ogni possibile educazione e progresso della platea. Questo vale anche per chi, all’opposto, conta gli sbadigli e si esercita a stroncare tutto ciò che ha sentore di “pesantezza” o di “messaggio ingombrante”, atteggiamento che esercita una forza contraria ma uguale. La denuncia fantozziana della «cagata pazzesca», coraggiosa nel contesto culturale dell’epoca, è poi diventata esecranda e nociva, alibi ipocrita per sfruttare il pubblico-consumatore con un cinema facilmente masticabile ma avvelenato di stupidità e conformismi (fu forse più onesto Il comune senso del pudore di Sordi-Sonego coniando “l’ingroppata artistica”, definizione che potrebbe gratificare almeno un titolo l’anno).
Estremizzando la critica non è più possibile alcuna critica ovvero sono possibili tutte le critiche, e si può affermare senza rossore di preferire, poniamo, Luciano Salce a Sergej Eizenstejn. La coriandolizzazione del giudizio (e la tentazione di trattare un film proponendolo come un esempio da ammirare e, nella colonna accanto, come qualcosa da esecrare), e il ricorso smodato alle stelline, oggi reincarnate nei pollicetti fallici di Facebook, sono figli di opposti estremismi che rischiano di erigere steccati anche perorando la causa della libera opinione.
Giulio Sangiorgio dirige una rivista, «Film Tv», che trasuda passione vera per il cinema e che di questi tempi è un esempio più che eroico. Ma c’è un passo del suo intervento che, se l’ho compreso bene, dovrebbe allarmare non poco: «Ci sono registi che fanno lavori critici, e che sono esenti del lavoro della critica sui loro film. Importa poco se i loro film siano belli o brutti». A me importa sì, e molto, se i loro film siano belli o brutti. Capirlo, separare il grano dal loglio, è ciò che secondo me dovrebbe tornare a fare la critica. Ragionare su un film può essere una magnifica attività intellettuale ma la critica dovrebbe prima di tutto indicare la qualità, avere il coraggio di affermare che quel film lì è notevole perché è migliore di altri, più interessante, più necessario, e poi avere la capacità di spiegare perché lo è, in che modo ci riesce.
Se vogliamo che la critica torni ad avere forza non andrebbe considerata “pensiero debole”. Bisognerebbe cercare più «risposte» che «proposte», evitando la tentazione del relativismo. Ristabilire dei gradi di valore, rimettere in luce delle coordinate, riproporre dei modelli, confrontarsi con i capolavori, cercarne di nuovi (sento già Giona Nazzaro ripetermi che «i capolavori sono diseducativi»; ma lui razzola molto meglio di come predica, perché della storia del cinema conosce pure gli anfratti e quando spiega un film non lesina rimandi storici e testuali, che sono riferimenti di qualità, gradi di valutazione).
Il gusto personale, ineliminabile, dovrebbe venire molto dopo il riconoscimento dei precedenti, l’indagine delle intenzioni e infine la verifica del risultato, nell’efficacia espressiva come nella mera capacità artigianale (l’unica cosa che non sottoscriverei nel bellissimo intervento di Spila è aver scelto come modello il Woodcock del Filo nascosto, che sarà un dittatore del gusto ma da sarto conosce il mestiere come pochi). Con il ricorso ai “fondamentali” invocati da Spila, all’attenzione per la platea augurata da Casella, alla competenza anche tecnica perorata da Salizzato. Puntando a una semplicità rigorosa che sappia prescindere dalle inclinazioni dello scrivente, e dalla tentazione della riflessione fine a se stessa. Una critica senza alterigie e senza scorciatoie. Che punti dritta al valore. Una critica valorosa.
di Alberto Anile