Contro la critica e i critici del gusto

Il primo contributo di un nuovo spazio dedicato nella rivista alla 'situazione della critica', al suo significato odierno e alla sua (eventuale) evoluzione. L'inizio di una discussione interna – ma non solo – sui modi e i motivi per fare critica oggi.

Contro la critica e i critici del gusto

In una scena de Il filo nascosto, Reynolds Woodcock, lo stilista protagonista del film, nota un’ombra di malumore nella modella-amante che sta provando un suo abito.
“Che succede, perché quell’aria desolata?”
“Credo che questa stoffa non mi piaccia molto.”
La sorella dello stilista interviene piccata: tutte le clienti dell’atelier adorano quella stoffa, quindi è impossibile non farsela piacere. E Woodcock è ancora più deciso:
“Quella stoffa è bellissima non perché le nostre clienti hanno ragione, ma perché è vero. Forse un giorno cambierai gusti.”
“Forse no!”
“Forse allora non hai gusto.”
“A me piacciono i miei gusti.”
“Basta!”

Il film è ambientato negli anni Cinquanta e il dialogo riecheggia con un po’ di nonchalance una cultura del tempo in cui c’era il primato del Gusto, quindi la soggettività e l’indiscutibilità del giudizio, l’impressionismo. Nell’esercizio della critica ad avere l’ultima parola era sempre e solo chi “sapeva di più”, colui che aveva dottrina, esperienza, intuito. Da una parte l’idealismo crociano (l’Arte, il Bello, l’Armonia), dall’altra il contenutismo ideologico e il pregiudizio politico. Chi ha cominciato ad amare il cinema leggendo Guido Aristarco e Cinema Nuovo sa di che si tratta. Fantasmi poi in gran parte dissolti negli anni Sessanta (Galvano Della Volpe, La critica del gusto), quando si aggiunsero altri strumenti e metodi di analisi e interpretazione quasi scientifici (lo strutturalismo di Barthes, la semiotica di Metz, la psicoanalisi lacaniana). Strumenti e metodi ritenuti infallibili e che, usati male, potevano provocare anche abbagli e forzature, come accadde. Per reazione arrivarono poi il relativismo e il postmoderno, e con essi, di nuovo, tornarono il Gusto, l’Intuito, il Soggettivismo, insomma i fantasmi del passato. Non è un caso che ne Il filo nascosto ci sia quel dialogo e che Paul Thomas Anderson abbia voluto evocare il giudizio della maggioranza (le clienti dell’atelier) e mettere in scena il confronto tra lo Spettatore (la giovane modella “che non sa”) e il Maestro che giudica e dice “Basta!”. Non è un caso, perché in generale, nell’esercizio della critica, il gusto impressionistico, il “mi piace” o “non mi piace”, sembrano oggi tornati ad essere quello che non potevano più essere: una categoria estetica.

Personalmente appartengo a una generazione di critici che hanno attraversato, negli ultimi decenni del secolo scorso, due fasi molto diverse eppure in qualche modo complementari: la prima, segnata dai grandi scossoni dei movimenti e delle avanguardie; la seconda, più battagliera e spietata, pronta a mettere tutto in discussione, in particolare il passato e le sue Verità assolute. E con la seconda si è aperta la stagione della leggerezza, del disincanto e del disimpegno, che a volte vuol dire arricchimento, altre sottovalutazione e superficialità. Di certo è cambiato il modo di fare critica, con la multiformità dei supporti e dei modi di fruizione, con la moltiplicazione e l’esplosione delle immagini. Oggi la visione di un film è meno definitiva di un tempo, quando non esistevano videoregistrazioni, canali digitali tematici né la rete dove navigare, recuperare e nel caso scaricare. Un modo quindi diverso e più comodo di studiare e analizzare i film, e dove sono richieste altre attitudini e capacità, almeno per orientarsi “criticamente” nel grande caos dell’offerta, per fare ordine, distinguere e semplicemente “vedere”. Eppure, tenuto conto delle dovute e meritorie eccezioni, a me sembra che il risultato sia insoddisfacente, sia a livello di qualità della critica proposta, sia di capacità di intervenire e incidere nei processi del sistema audiovisivo contemporaneo.

Parlo qui, di proposito, di qualità e non di quantità, lasciando da parte quindi le difficoltà oggettive nell’esercizio della critica: la penuria e la vulnerabilità degli spazi a disposizione, la sordità e l’ottusità di chi governa l’informazione specialistica, il distacco e la disattenzione del pubblico, la crisi complessiva del sistema. Questa ovviamente è la causa, ma potrebbe anche essere l’effetto di un modo di fare critica sempre più deludente, che non cerca, come un tempo, di valorizzare la propria specializzazione né di coprire uno spazio disponibile e possibile, e viceversa si accontenta di allinearsi all’informazione generalizzata e omologata. È qui che ritornano, e a volte trionfano, il Gusto, la soggettività, il “mi piace” e “non mi piace”.
A me capita spesso di sorprendermi davanti a giudizi apodittici e indiscutibili, oppure superficiali e liquidatori (il “Basta” di Woodcock ne Il filo nascosto) con film e autori che meriterebbero per complessità e originalità altra attenzione e altri approfondimenti. Viceversa noto un appiattimento sconcertante a fronte di film modesti, eppure coperti di premi (David e Nastri a bizzeffe) e gratificati dalla risposta del pubblico (le “clienti dell’atelier” sempre ne Il filo nascosto). Qui la critica avrebbe il dovere e la capacità di distinguersi e qualificarsi, non di aggiungersi e omologarsi. E in questa desolante tendenza ad adeguarsi una certa critica cinematografica recupera vecchi vizi e antiche modalità: il contenuto prima della forma, il racconto della trama (magari per deriderla o semplificarla), lo schierarsi dalla parte del pubblico “che paga e deve divertirsi”, e così via. C’è una famosa dileggiatrice del cinema italiano che si diverte a contare gli sbadigli in platea e ha introdotto la categoria dei “film che torturano gli spettatori” (dagli esempi che fa, mezza storia del cinema dovrebbe essere bruciata). C’è chi confessa invece la “nostalgia delle stroncature” (Alfonso Berardinelli, Il Foglio, 25/7/2018), evidentemente scandalizzato dal dileggio e dal pressapochismo dei nuovi stroncatori. Personalmente ho cominciato a scrivere, ormai mezzo secolo fa, in una rivista che per scelta non faceva stroncature (per i film mediocri bastava non parlarne), dove però tutti eravamo consapevoli che la stroncatura è un’arte critica e un’arte letteraria più complicata e importante dell’encomio, e che «per essere efficace deve essere intellettualmente motivata e letterariamente elaborata». Certo, per farlo, non bisogna inseguire la provocazione e lo sberleffo.

A proposito di provocazioni, io non so resistere alla tentazione di andare a leggere le pagelle sui film in uscita nella settimana e ogni volta resto sconcertato dal fatto che colleghi della stessa testata esprimano giudizi sullo stesso film diametralmente opposti, varianti dall’1 o dal 2, addirittura dallo zero, fino all’approvazione dell’8 o del 9. È capitato, ad esempio, per Lazzaro felice o Il sacrificio del cervo sacro o, più recentemente, per Una storia senza nome.
Giulio Sangiorgio, il direttore della rivista che da tempo leggo con più piacere e interesse (FilmTV) dice che si tratta di un segno di vitalità e di dialettica interna, io penso invece che sia l’espressione più eclatante di quanto dicevo prima: il ritorno e l’affermazione del Gusto e il puro piacere della provocazione. Pareri e giudizi che poi magari, nella stessa rivista, vengono spiegati con ragionamenti analitici e interpretazioni, ma resta comunque la totale difformità di giudizio ad apparire ingiustificabile, se non con il recondito pensiero di voler gratificare il più ampio spettro possibile dei lettori/spettatori. Io credo che, a livello critico, se un film è da 8 non può essere da zero o 1, perché a contare qui c’è prima di tutto il concetto dei “fondamentali”, ovvero quei requisiti minimi e massimi, strutturali, che costituiscono l’espressione artistica quale che sia. In un film i fondamentali sono la grammatica cinematografica, la drammaturgia della messinscena, l’interesse del tema, la qualità delle interpretazioni, lo stile di regia e in più, quando ci sono (e allora c’è la meraviglia), l’innovazione del linguaggio e la capacità di sorprendere. Il voto eliminatorio (l’1 o lo zero) così come il giudizio encomiastico (il “9” e il “10”) non possono che tenere conto di questi fondamentali, che dovrebbero essere oggettivi e mai arbitrari e soggettivi.
Leggo anche le pagelle pubblicate nelle pagine sportive del lunedì, sui calciatori che hanno disputato la partita il giorno prima. In quel caso i voti espressi sui vari giornali non sempre coincidono ma mai sono opposti. Il sospetto è che qui si tengono presenti i fondamentali che in altri casi invece si ignorano. In definitiva, vorrei una critica affidabile e autorevole, divertente ma necessaria, dove sia evidente il metodo e tenuto lontano il più possibile il gusto soggettivo, dove sia data la possibilità di verificare l’affidabilità del giudizio e non sia detto mai il “Basta” che mette fine al discorso.


di Piero Spila
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