Con occhio limpido nella foschia. Per una critica meno annebbiata
Agli interventi sullo stato e il ruolo della critica, all'interno del dibattito generato da Piero Spila, si aggiunge quello di Domenico Monetti, programmatore culturale del Cinema Trevi per conto della Cineteca Nazionale.

Da nostalgico “ladro di cinema” rubo il titolo per questo mio modesto intervento a un magnifico libro, Con occhio limpido nella foschia. L’altro cinema degli anni ‘80 – ormai ingiustamente dimenticato! – curato da quell’inarrivabile storico della critica nostrana, Lorenzo Pellizzari, dedicato a un critico cinematografico morto a soli 35 anni, Lodovico Stefanoni che aveva militato in alcune riviste cinematografiche (Cineforum in primis) dalla fine degli anni Settanta fino a tutti gli anni Ottanta. Nella prefazione di Pellizzari si legge un passaggio che è ancora attuale in questi anni: «È l’occhio degli anni Ottanta – dapprima attesi con qualche speranza e ben presto vissuti con coraggio e intelligenza, con delusione e con pena, mai con rassegnazione – a unificare il discorso, anche quando esso si volge all’indietro, verso un decennio meno conformista e meno rifluente. È l’occhio di favore indirizzato a tutto quanto esprima una propria diversità – di stile o di tematiche, di caratterizzazioni o di impegni – a consentire di individuare, perfino ove la macchina prevale, quell’altro cinema che non dichiara apertamente una sua alterità ma cerca ugualmente di conseguirla con i mezzi (i più vari tra loro) che gli sono consoni o consentiti.
È l’occhio degli strumenti critici adottati, dei riferimenti culturali prescelti, del rapporto con la cronaca che lentamente evolve in storia, a permettere o a favorire l’identificazione di uno statuto comune a messaggi e modi diversi».
Mi sembra – oltre che una molto pertinente definizione – un auspicio, un augurio, una meta che purtroppo nel nostro contesto poveristico critico nostrano, assume una dimensione utopisticamente impossibile. È l’occhio – il famoso terz’occhio! – prima ancora che la mano, la scrittura, che deve allenarsi “socraticamente” alla visione. Ed è poi lo stile che è inscindibile dal contenuto, e che non dovrebbe permettere di cadere nelle facili trappole di un impressionismo masturbatorio erede di un pensiero “residuale bellico anni Settanta” o nel classico “pastone giornalistico” in cui l’oggetto di critica si trasforma in slogan promozionale facendo concorrenza spesso per plagio ai vari uffici stampa. Purtroppo tutte queste trappole qui enunciate le vivo in prima persona in primis come lettore. Bisognerebbe con modestia ma anche con costanza aspirare alla perfezione, a riconsiderare un pezzo di critica come un saggio con espediente narrativo, a una creazione letteraria. Scriveva Cristina Campo, una delle più grandi scrittrici misconosciute di tutti i tempi, in una lettera ad un’amica: «Bisogna lavorare con cura, un po’ per giorno, pensando sempre, sempre alla bellezza». Ecco, appunto, alla bellezza bisognerebbe pensare e non alle pagelle dei critici, ai voti spesso dati non per spirito di chiarezza, ma per esibizionismo eccentrico, per complessata autorialità parassitaria.
di Domenico Monetti