Zona d’ombra
Il dottor Bennet Omalu è un eroe a tutto tondo, puro ai limiti dell’ingenuità, determinato, generoso, fiducioso nei propri mezzi e nella benevolenza di Dio. Ha lasciato la sua patria, la Nigeria, per inseguire il paese delle possibilità per eccellenza, gli Stati Uniti e si è stabilito a Pittsburgh. Ama solo la medicina legale, vive come un monaco pensando solo a fare nuovi master da mettere nel curriculum, parla con i morti prima di sottoporli ad autopsia. Un giorno sul tavolo dell’obitorio si trova davanti il corpo di Mike Webster, “Iron Mike”, mito del football americano che dopo la fine della carriera si era ridotto a vivere nel suo pickup tormentato da lancinanti emicranie e turbe mentali. Il dottor Omalu vuole capire di più sulla morte e soprattutto sulla tormentata vita di Webster, studia, osserva, ordina esami particolari e costosi che paga di tasca propria. E finalmente trova qualcosa che spiega il declino di “Iron Mike”: la Cte (Encefalopatia cronica traumatica), malattia provocata dai tanti colpi alla testa ricevuti in campo. Presto saltano fuori altri casi di ex giocatori di football suicidi e quando lo studio di Omalu diventa pubblico ha l’effetto di una bomba sul richissimo mondo del football americano. Il dottore che viene dall’Africa e non sa nulla di sport e del mitico Superbowl diventa un “nemico pubblico” da colpire. Per fortuna a sostenerlo ci sono il suo capo Cyril Wecht, l’ex medico sportivo Julian Bailes e Prema, la giovane donna silenziosa e tenace che rompe la sua solitudine e che diventerà sua moglie.
E’ bella, esemplare e molto americana la storia vera di Bennet Omalu: sembra fatta apposta per essere portata sullo schermo. Il Davide della scienza contro il Golia della National Football League, l’immigrato contro il più americano degli sport, il medico puro e spartano contro un vorticoso giro di affari: le contrapposizioni sono quelle giuste e funzionano. Will Smith è un interprete eccellente di questo “marziano a Pittsburgh” e il resto del cast è impeccabile: da Alec Baldwin (che si è ricostruito intelligentemente una carriera di comprimario di lusso con ruoli perfidi, o come in questo caso, sofferti) ad Albert Brooks (a cui pure non giova l’invadente trucco), da David Morse a Mike O’Malley. Il film però, corretto, scorrevole e sufficientemente “didattico”, non riesce però a trasformarsi in un’opera graffiante e convincente. Non c’è nessun colpo d’ala, la regia è funzionale e niente di più, la sceneggiatura ha troppi momenti prevedibili. Eppure con un po’ di coraggio in più si sarebbero potute fare grandi cose, mostrare davvero il lato oscuro di quel mondo tanto ben raccontato da Oliver Stone in “Ogni maledetta domenica”.
LA TRAMA
Il film si ispira alla vicenda di Bennet Omalu, medico nigeriano trasferitosi negli Stati Uniti. Il giovane dottor Omalu, neuropatologo, scopre l’esistenza di una malattia, la Cte, che provoca problemi mentali e suicidi fra gli ex giocatori di football americano. La sua storia è stata raccontata per la prima volta nel 2009 dalla giornalista Jeanne Marie Laskas sulla rivista americana GQ nell’articolo “Game Brain”, poi diventato un libro dal titolo Concussion.
di Anna Parodi