Zodiac
Un uomo e una donna sono sdraiati in riva a un grande lago, il cielo è alto e sereno, sgombro da nubi, l’aria è limpida. Lui le racconta ancora una volta della città sommersa in fondo al lago, di come la valle sia stata allagata artificialmente per creare lo specchio d’acqua che ora si estende davanti a loro, azzurro e calmo. I colori della scena, saturi e luminosi, sono molto lontani dalle penombre misteriose con cui di solito al cinema vengono rappresentati crimini e omicidi: l’assassino stavolta arriva in pieno sole, mascherato in modo improbabile, e la coppia si rende conto troppo tardi del pericolo imminente. Lo stile della sequenza, una delle più riuscite dell’ultimo film di David Fincher, è asciutto e sobrio, tutto è descritto in modo trasparente e naturale tanto da creare, paradossalmente, un effetto di surrealtà e straniamento, perché mancano tutti quegli elementi che si è abituati ad associare alle scene di omicidi: la musica fuori campo che accresce sottilmente la tensione, i chiaroscuri inquietanti, le soggettive di assassini di cui non vediamo mai il volto o di vittime ancora ignare del pericolo, che hanno la funzione di aumentare la suspence.
Opposta e speculare a questa è la sequenza con cui il film si apre, che descrive anch’essa un duplice delitto: girata con uno stile più classico, in luogo della luce abbagliante troviamo il buio denso e impenetrabile della notte, in cui due ragazzi appartati in un auto a stento distinguono il viso dell’assassino che si avvicina.
La storia raccontata fa riferimento a un caso di cronaca che alla fine degli anni Sessanta sconvolse la baia di San Francisco, quello di un serial killer chiamato Zodiac, autore di numerosi delitti, che si divertiva ad inviare ai giornali e alla polizia misteriosi messaggi cifrati, e che non fu mai arrestato, nonostante i lunghi anni di indagini. Come il mostro di Dusseldorf nel famoso film di Fritz Lang, Zodiac ha rappresentato per gli americani dell’epoca il mostro per eccellenza, diventando presto un caso mediatico. Tuttavia l’intento di Fincher non è quello di mitizzare o esaltare la figura dell’assassino misterioso, né quello di dargli un volto o un’identità fittizia per motivare e spiegare la sua follia omicida.
Il regista si basa sui due romanzi che Robert Graysmith, vignettista del San Francisco Chronicle, scrisse su Zodiac, per costruire un film che copre un arco temporale molto ampio – dalla fine degli anni Sessanta ad oggi – senza mai ricorrere a flash-back, intrecciando la storia del disegnatore Graysmith con quelle del giornalista Paul Avery e dell’ispettore di polizia Dave Toschi, tutti alla ricerca dell’inafferrabile serial killer. Soprattutto Graysmith, nel film interpretato da Jake Gyllenhaal, sarà ossessionato dal mistero che circonda Zodiac, e anche senza la collaborazione della polizia, nel corso di un ventennio, porterà avanti autonomamente la sua indagine sul caso.
Fincher sembra voler uscire da certi schemi consolidati, soprattutto attraverso una narrazione poco convenzionale, atipica per il thriller, basata su una struttura accumulativa, che tuttavia non intacca il ritmo dinamico del film, nonostante la lunghezza inusitata di due ore e quaranta minuti. E’ in questo che consiste l’originalità del film, che tuttavia rischia una certa pesantezza nella seconda parte, in cui viene raccontata dettagliatamente la maniacale ricerca del disegnatore che insegue le tracce del killer.
Come in una sorta di inchiesta documentaristica, il tempo del racconto è sempre quello lineare della realtà, un accumularsi progressivo di indizi e prove che si contraddicono vicendevolmente, un percorso a senso unico che tuttavia non è mai fluido. Il film diventa quindi una ripidissima discesa verso un punto d’arrivo irraggiungibile, come se il finale fosse un traguardo che ogni volta si sposta di qualche metro più in là. L’enigma di Zodiac non può essere sciolto neppure dalle didascalie che precedono i titoli di coda. La ricerca forsennata di Graysmith si perde alla fine come un rivolo d’acqua nella sabbia: un finale risolutivo sarebbe stato non solo infedele alla realtà dei fatti, ma soprattutto consolatorio, forzato.
Se Fincher non si discosta dai suoi precedenti film per le tematiche trattate, lo fa, invece, per l’aspetto formale, abbandonando i toni enfatici e caricati che hanno forse contribuito al successo di opere come Seven e Fight Club. Optando per una cifra stilistica più sobria e misurata il regista tende questa volta ad esasperare non l’apparato visivo ma la struttura stessa del film, ed evita con accortezza di banalizzare un soggetto ormai abusato nel cinema. Zodiac racconta, più che la storia di un serial killer, l’ossessione di coloro che hanno trascorso la vita ad inseguire un mistero, divenuto infine un’oscura e inaccessibile chimera.
di Arianna Pagliara