Zamora
La recensione di Zamora, di Neri Marcoré, a cura di Guido Reverdito.
Siamo nella Milano di metà anni ’60. Molto prima che diventasse “da bere” ma anche prima che gli effetti boomerang del boom economico la convertisse nella metropoli un po’ tentacolare degli anni a venire. Ed è lì che il giovane e imbranato Walter Vismara approda dalla provincia lombarda per lavorare come contabile nella tipica fabbrichetta gestita da un imprenditore sedotto dalle sirene della modernità industriale, ma soprattutto ossessionato dalla passione per il calcio (che, come si usava all’epoca e sulla scorta della dittatura giornalistica di Gianni Brera, era chiamato fòlber). Al punto da costringere tutti i propri impiegati a impegnarsi in grottesche partite settimanali tra scapoli e ammogliati. Supplizio che tocca anche al taciturno Walter: negato per lo sport come nessun’altro in azienda, questa versione riveduta e corretta del Fantozzi di Paolo Villaggio crede di potersela cavare spacciandosi per portiere, ma finisce con l’essere bullizzato da tutti i colleghi che per via della massa di goal incassati ogni partita gli affibbiano sarcasticamente il soprannome di Zamora, il mitico portiere spagnolo degli anni ’30.
Ma il protagonista di questa fiaba retro a lieto fine ha però poco da spartire con Fantozzi e coi vari ragazzi di provincia sfornati dalla commedia italiota per decenni: anche se vilipeso per l’imperizia sportiva e in parte umiliato nei sentimenti (ha una cotta per una collega che gli preferisce uno dei suoi aguzzini sul campo da calcio), l’antieroe della storia ha risorse inattese cui fare riferimento: grazie ai consigli di un portiere professionista la cui carriera era stata rovinata da scelte di vita inaccettabili per l’epoca, ma capace di ritrovare in questo rapporto la spinta per ridarsi una seconda chance esistenziale, riesce a vendicarsi delle umiliazioni patite, ritagliandosi una nuova dignità professionale e umana.
Libero adattamento del romanzo omonimo di Roberto Perrone del 2005 (senza però che il giornalista genovese ne potesse vedere l’adattamento sullo schermo perché scomparso prematuramente durante le ultime fasi della lavorazione del film), Zamora segna l’esordio alla regia del poliedrico Neri Marcorè. Che, dopo un trentennio di carriera diviso tra teatro, conduzioni televisive, musica e soprattutto cinquanta film da attore (con un Nastro d’argento al suo attivo per Un cuore altrove di Pupi Avati), come molti suoi colleghi nell’ultimo anno ha deciso di passare dall’altra parte della macchina da presa.
E lo ha fatto con un prodotto ambizioso, sospeso tra la rievocazione nostalgica di un’èra serena e carica di aspettative verso un futuro radioso come la metà degli anni ‘60 (e non è un caso che per tutta la pellicola si respiri aria sia di Gianni Amelio ma anche di certa cattiveria targata Risi, Scola e Monicelli), e l’attento disegno di dinamiche sociali e lavorative viste come un anticipo al ralenti delle frenesie del nostro oggi.
Come qualsiasi film in costume, poteva presentare rischi non indifferenti. Primo fra tutti quello della ricostruzione degli ambienti che invece sono proprio uno dei punti di forza dell’intera operazione, unitamente alla scelta del cast all’interno del quale brilla Alberto Paradossi (già Bobo Craxi in Hammamet di Gianni Amelio), straordinario nel rendere appieno tutte le sfumature del suo timido e impacciato travet, ma circondato e sostenuto da maestri della risata a comando quali Giovanni Storti (irresistibile nei panni del cummendatùrr ossessionato dal calcio) e il sodale Giacomo Poretti, Antonio Catania, Ale e Franz, ma anche lo stesso Marcoré che regala al portiere in disgrazia mentore di Zamora un’umanità dolente in cerca di riscatto.
di Guido Reverdito