Wish
La recensione di Wish, di Chris Buck e Fawn Veerasunthorn, a cura di Andrea Bosco.
È con il fiatone, con una certa confusione di intenti, con una serie ininterrotta di delusioni al botteghino e con la progressiva disaffezione del pubblico che la Disney chiude le celebrazioni del suo centenario: un giubileo laico in cui emergono vistosamente gli effetti di linee editoriali controproducenti, di strategie promozionali fallimentari e di una complessiva difficoltà ad adeguarsi allo scenario post-pandemico.
Wish, 62° Classico del canone, suggella un annus horribilis che ha travolto in egual misura prodotti animati e live action, cinematografia e serialità, produzioni concepite per la sala e progetti relegati alla piattaforma streaming, iniziative della casa madre e frutti dell’acquisizione di Pixar, Marvel e Lucasfilm, riassumendo emblematicamente il disorientamento di un’azienda incerta sul cammino da intraprendere, a metà fra nostalgia e innovazione, consuetudine e rottura, necessità di riconnettersi con gli spettatori che hanno sancito la sua fortuna e ricerca di nuove fette di mercato: l’eroina e le motivazioni che la spingono sono indubitabilmente moderne, progressiste e volte al benessere della comunità, ma il contesto è quello della fiaba tradizionale, tra reami incantati, animali parlanti e antagonisti irredimibili; i personaggi in CGI, dal character design non irresistibile e dal modesto impatto visivo, si stagliano su splendidi fondali bidimensionali acquerellati che sembrano usciti dalla fantasia di Michel Ocelot, esaltati da quel formato Cinemascope a cui lo studio non ricorreva da Lilli e il vagabondo; le canzoni, pur discrete, si adeguano a quegli stilemi della più corriva scena pop contemporanea da cui l’autrice Julia Michaels proviene, ma risultano valorizzate dalla vivacità di numeri musicali degni della grandeur del passato.
È in questa faticosa corsa al compromesso, che ridimensiona fortemente le ambizioni con cui il film era stato concepito nel 2018, che Wish arranca e stenta a brillare di luce propria, accontentandosi di essere una solo potenziale origin story di quei cliché, come la stella dei desideri e la fata madrina, che sono diventati sineddoche del marchio, limitandosi a riproporre opportunamente aggiornati – a partire dal gruppo di 7 aiutanti che condivide la caratteristica principale, l’abbigliamento e l’iniziale del nome del nano di Biancaneve cui corrisponde – inarrivabili modelli già consolidati.
Dopo il disastro dello “sperimentale” Strange World, insomma, la Disney segna una nuova battuta d’arresto e fallisce anche sul versante conservativo: il futuro della maggiore multinazionale dell’intrattenimento, a fronte di tre lungometraggi animati annunciati per il prossimo triennio su cui vige ancora il massimo riserbo, appare sempre più imperscrutabile.
di Andrea Bosco