Whale rider (La ragazza che cantava alle balene)

whale rider

whale riderÈ un inno alla cultura maori il nuovo film della neozelandese Niki Caro, Whale Rider (la ragazza che cantava alle balene).
Whale Rider – già premiato al Toronto International Film Festival, a Rotterdam e al Sundance – è il secondo lungometraggio della giovane regista neozelandese Niki Caro, in precedenza selezionata a Cannes e insignita al New Zealand Film Awards per Memory and Desire. Uscito da pochi giorni negli Stati Uniti con la Newmarket Films, in Italia con la BIM da novembre 2003 e proiettato al 39esimo Festival del Nuovo Cinema di Pesaro in anteprima italiana, La ragazza che cantava alle balene è un film, al tempo stesso, sommessamente delicato ed estremamente forte.
Tratto dal’omonimo romanzo dello scrittore maori Witi Ihimaera, il pretesto narrativo di questo lavoro cinematografico così denso di sottesi significati è la storia di Pai (Kisha Castle-Hughes), nipote di Koro, capo tribù di un piccolo villaggio costiero della Nuova Zelanda. Attraverso un equilibrato dialogo e una curata fotografia – dal parto iniziale alla scena di celebrazione finale – lo spettatore è letteralmente chiamato ad immergersi nell’amniotico rapporto di questo popolo con la propria terra e le proprie tradizioni. Prima tra tutte in ordine di importanza, la leggenda fondativa secondo cui “Paikea” (ossia “colui che cavalca la balena”) portò i primi Maori sulla “Terra della lunga nuvola bia nca” (la Nuova Zelanda, appunto), da cui deriva la secolare usanza di trasmettere per discendenza maschile dal capo del villaggio questa impegnativa leadership.

Di qui prendono forma gli assilli del vecchio Koro, nonché la simbolica non manichea distinzione tra i ruoli (e i caratteri) di uomini e donne del film. I primi (Koro, entrambi i suoi figli a loro modo, l’amichetto di Pai…) sono per indole bonariamente testardi nel seguire i propri progetti e le proprie passioni, a volte eccessivamente intransigenti e severi ma spesso vittime di grossi sconforti e divoranti paure; le seconde (Pai, sua nonna, la moglie di suo zio…) sono per natura l’“altra metà del cielo” più funzionale e disponibile, in certe occasioni silenziosamente sottomessa, ma argutamente di polso nei momenti critici. È quando Pai riuscirà a “cavalcare la tradizione” e a scavalcare il granitico muro che divide questi due emisferi che diventerà l’indiscutibile eroina delle sue genti.

Il figlio maggiore di Koro ha visto morire la prima moglie nel partorire Pai (e un gemello maschio deceduto alla nascita) e se n’è andato all’estero costruendosi una nuova famiglia con una donna straniera e (un po’ opportunisticamente) spacciando tipici oggetti polinesiani come frutto del suo estro artistico. Suo fratello è rimasto nella terra nei padri, ma (almeno in principio) sembra il tipico “mollaccione”, dedito alla buona tavola e all’ozio con tanto di amici pseudo-freakettoni; lo si scoprirà poi, sia valevole uomo d’armi (rinverdendo i fasti di una medaglia vinta in gioventù, insegnerà alla nipote la danza “haka” e la lotta rituale maori) che premuroso zio (si getta in acqua quando crede che Pai sia affogata nella ricerca dell’amuleto del capo). E poi c’è Koro, che si barcamena sconnessamente nel lacerante dissidio tra il grande amore per la nipotina cresciuta con lui e il doloroso rimpianto che il gemello maschio non le sia sopravvissuto: è assillato dalla mancanza di una linea discendente a leader della comunità, e certo non lo aiuterà il totale fallimento della scuola di tradizioni maori che aveva aperto per trovarvi un degno sostituto tra gli altri ragazzi del villaggio (il più in gamba è un amichetto di Pai, dalla non facile vita di figlio di un ex-galeotto per nulla pentito dei propri misfatti). Pai è soavemente dondolata tra il desiderio di essere finalmente accettata dal suo adorato nonno e l’impossibilità di dimostrarsi a lui completamente; non è una ragazzina capricciosa che fa le bizze quando il nonno le vieta qualcosa che lei vuole con forza; è comprensiva e rammaricata, piuttosto che agitata e ribelle, quando il vecchio la riporta con modi bruschi al suo status di donna cui certi atteggiamenti e aspirazioni non son permessi. Intorno a lei, a darle equilibrato appoggio e remissiva comprensione, stanno la saggia nonna (che pazientemente aspetta tempi più maturi affinché Koro se ne faccia una ragione del destino da leader di Pai e, da un lato rincuora la bimba, dall’altro minaccia più volte il marito di divorzio per via dei suoi comportamenti) e pure la zia (che sembra solo buona a civettare e star sul divano, ma che poi l’avvolge in un materno abbraccio quando viene mandata via di casa e si preoccupa per lei sulla barca). In un mitigato amalgama di ingredienti psicologici mai sfacciatamente urlati, il progredire della vicenda segue la maturazione individuale delle ponderate convinzioni che si costruiscono nella mente di ciascun personaggio e lo spettatore ha così modo di conoscerli pian piano in una sempre mutevole e mai scontata agnizione. In questa atmosfera dai tempi ben calibrati, dove si alternano salde convenzioni e prudenti atteggiamenti – imparati usi e costumi maori, ritrovato l’amuleto gettato negli abissi, chiamate a raccolta le balene col proprio canto e salvatele dalla moria a riva, cavalcandone il capo branco a rischio della propria vita – Pai avrà modo di dimostrare al villaggio senza ombra di dubbio di essere lei la predestinata, seppur donna.


di Sanzia Milesi
Condividi

di Sanzia Milesi
Condividi