Wes Anderson incontra Roald Dahl
La recensione dei quattro cortometraggi diretti da Wes Anderson per Netflix, a cura di Emanuele Rauco.
Nel celebre saggio di Bazin su Diario di un curato di campagna di Robert Bresson, il critico francese teorizzò in sintesi che il materiale letterario di partenza non dovrebbe essere adattato al mezzo cinematografico, per trarne situazioni e psicologie, ma confermato nella sua essenza letteraria attraverso le immagini e le parole. Come fa Bresson, appunto, e come fa in modo pirotecnico Wes Anderson prendendo quattro racconti di Roald Dahl e facendone altrettanti cortometraggi disponibili su Netflix.
I racconti sono La meravigliosa storia di Henry Sugar (visto a Venezia), Il cigno, Il derattizzatore e Veleno, il primo lungo una quarantina di minuti contro i 15 degli altri tre. Il lavoro che fa Anderson, anche sceneggiatore, è quello di non adattare nulla, di prendere i testi così come sono, narratori interni o esterni e dialoghi e di farli dire, in una recitazione a metà tra la lettura e l’interpretazione, mentre intorno al cast (magnifico, come sempre), le scenografie di Adam Stockhausen e Anna Pinnock e la macchina da presa guidata Robert Yeoman creano peripezie visuali che illustrano e arricchiscono le parole.
Una messinscena teatrale, la visualizzazione di un processo narrativo (elementi centrali nel cinema recente di Anderson), un Reading illustrato, ma forse, soprattutto un esperimento radicale sulle forme della rappresentazione, in cui il grado zero della scrittura per immagini – o quello che, appunto, chiameremmo adattamento – si incontra e scontra con un lavoro stilistico e visivo sempre più sontuoso, in una fusione incredibile tra minimalismo e barocco.
Quello che nasce da questa fusione è una messa in abisso in cui ogni parola o frase rimanda a un’immagine che a sua volta rimanda a una parola, così da amplificarsi passo dopo passo, in un gioco vertiginoso che può sorprendere come anche lasciare sopraffatti ed estenuati. Resta il fatto che, al contrario di chi lo vorrebbe stanco e ripetitivo, Wes Anderson sta giocando con le sue ossessioni in modo sempre più estremo e sfacciato, divertendosi a inventare variazioni e ricami dentro il suo immaginario estetico. Nei casi migliori, dicendo anche qualcosa del mondo, in questo caso limitandosi al gioco, ma con un’abilità di cinema ancora una volta sfavillante.
di Emanuele Rauco