We Are the Best!
Poeta precoce e poi regista di non molti film — sette in sedici anni di cui due mai distribuiti dalle nostre parti —, il quarantacinquenne di Malmö Lukas Moodysson sin dai tempi del brillante esordio di Fucking Åmål nel 1998 (ma poi anche in Together, Lilja 4-ever e nel meno riuscito Mammoth), si è quasi sempre concentrato su tematiche legate alle difficoltà dell’inserimento degli adolescenti nel mondo degli adulti e sull’anticonformismo contrapposto a quell’omologazione coatta che ogni moderna società occidentale pretende da quanti ne fanno parte.
Non deve quindi stupire che anche questa sua ultima fatica, vista a Venezia a settembre nella sezione «Orizzonti», riproponga la stessa accoppiata di nodi tematici a riconferma di come l’adolescenza vista nell’ottica di una delle fasi più critiche della vita di un essere umano meriti per Moodysson particolare attenzione non solo perché decisiva nella formazione interiore dell’individuo ma soprattutto per stabilire una sua possibile collocazione nelle gerarchie sociali del suo futuro di adulto.
Come già successo in altre sue pellicole (vedansi Together e Lilja 4-ever), anche in We Are the Best! Modysson riavvolge il film della grande Storia ambientando la sua microstoria nella Stoccolma del 1982, quando lo stato super assistenziale che per anni aveva coccolato i sudditi del regno di Svezia stava iniziando a mostrare le prime incrinature a livello sociale e le giovani generazioni nate una decina di anni prima cominciavano a far sentire il proprio senso di spaesamento in un paese da sempre fin troppo attento al benessere interiore dei propri cittadini.
Bobo e Klara, tredicenni inquiete in cerca di se stesse, oltre alla scuola condividono una serie di disagi che le hanno portate a cementare una solida amicizia in chiave protettiva contro l’esterno: figlia di genitori separati, la mascolina Bobo vive con una madre che cambia compagno con la stessa velocità con cui alterna i vestiti e vede il padre ogni morte di papa, mentre la ribelle Klara (con cresta da punk e carattere molto aggressivo) detesta la famiglia che le è toccata in sorte con due genitori che litigano come galletti caricati a molla galleggiando in una penosa piattezza piccolo borghese.
Decise a dare una forma compiuta al loro senso di disagio esistenziale e sociale le due ragazzine (pur non sapendo nemmeno tenere in mano uno strumento musicale) decidono di fondare un complessino punk perché in quella forma di ribellismo degenerativo del rock estremo vedono la possibilità di urlare a squarciagola tutto lo schifo che provano per l’allineamento sociale e per l’integrazione che viene richiesta loro attraverso un normale percorso di integrazione nel tessuto antropologico del mondo in cui (soprav)vivono.
Quando Bobo e Klara — che sfogano tutta la loro rabbia giovane sulla batteria e su un basso messi a loro disposizione in un centro culturale di quartiere frequentato da altre band giovanili — incontrano la bella e introversa Hedvig, il duo si converte ben presto in un trio perché anche la nuova arrivata, proveniente da un ambiente cattolico piuttosto rigido ma ottima chitarrista classica, ha i suoi nutriti scheletri nell’armadio emotivo e trova nelle due neo-amiche e nelle loro confuse pulsioni di rivolta lo spunto per sfogare gli astratti furori che nemmeno lei sapeva di covare dentro.
Decise a non fermarsi di fronte a nulla, nemmeno di fronte alla resistenza delle famiglie, all’emarginazione dei coteanei (ivi inclusi i membri di una boy band ugualmente punk con cui le ragazze cercano a un certo punto di trovare qualche punto di connessione oltre che provare i primi turbamenti del cuore e i primi tradimenti) o all’insuccesso inevitabile cui la raccogliticcia band va incontro quando sale sul palco di un festival di quartiere, le tre amiche proseguono imperterrite per la loro strada mostrando al mondo di voler imporre a ogni costo la propria visione anticonformista sulla piattezza che regna ovunque.
Basato su una graphic novel scritta dalla moglie Coco (inedita in Italia e nella quale l’autrice si fondava su materiale vagamente autobiografico di un’infanzia da ragazzina difficile), il film ha proprio in questa dipendenza di genere letterario i suoi non moltissimi pregi ma anche e soprattutto i non pochi difetti.
Se da una parte è infatti innegabile che il racconto lineare tipico di un percorso narrativo a fumetti regala al film un andamento facile e logicamente concatenato nel quale le vicende vengono esposte per quello che sono senza fronzoli e pretese eccessive di introspezione, allo stesso tempo è difficile pensare che un tale tipo di approccio alla materia trattata possa permettere all’autore di lavorare analiticamente sui caratteri dei personaggi in scena permettendogli così di sviluppare appieno il suo complesso discorso sui gangli interiori di tre pre-adolescenti in subbuglio.
Col rischio inevitabile che alla fine ci si trova di fronte a delle semplici figurine bidimensionali là dove lo scopo primario del film era forse proprio quello di offrire al pubblico tre ritratti di rabbia giovane disegnati con grande forza analitica e imposti sullo schermo come figure archetipiche di una condizione esistenziale che fosse poi possibile trasferire da quella Svezia d’origine a un qualsivoglia scenario altro senza che il cambio di fattori condizionasse la riuscita finale del travaso.
Cosa questa che però non accade perché il film di Moodysson — che sta alle molte pellicole sul disagio adolescenziale come appunto un fumetto può stare a pagine di alta letteratura dedicate all’argomento e che conferma un lieve appannamento del regista svedese dopo il non certo riuscito Mammoth — si ferma alla superficie e si limita ad attraversare un collage di situazioni e di accadimenti minimi che sembrano appunto le pagine amatoriali del diario di una tredicenne ma che non arrivano mai ad avere quel respiro ampio che il cinema richiede per coinvolgere davvero lo spettatore.
In tutto questo non aiuta di certo il doppiaggio della versione distribuita in Italia: come sempre accade in ogni film interpretato da adolescenti o da bambini, quando si arriva a convertirne le voci originali degli attori scelti per l’impresa nei loro corrispettivi locali, il risultato è spesso mortificante. Così che l’effetto (e qui spiace in particolar modo perché è probabile che le tre giovani attrici che interpretano le tre protagoniste fossero davvero molto brave a dare corpo ai disagi interiori dei loro personaggi) scade in qualcosa che somiglia pericolosamente a un prodotto televisivo privo di personalità e che, proprio per la questione del doppiaggio, rischia di essere assimilato a troppa spazzatura da piccolo schermo con cui ha ben poco a che spartire.
Trama
Nella Stoccolma del 1982 tre tredicenni costrette a prendersi cura di se stesse da sole troppo presto ma grintose e determinate pur nella loro confusa fragilità preadolescenziale decidono di reagire alle asperità della vita mettendo insieme un gruppo punk, anche se tutti dicono che il punk è morto e nessuna di loro sa esattamente che cosa voglia dire suonare uno strumento.
di Redazione