Volver
Nel mondo di Pedro Almodòvar le donne, sempre più, sembrano bastare a se stesse, mentre gli uomini scompaiono senza lasciare tracce e rimpianti. In Volver, la prima scena è significativamente ambientata in un cimitero di provincia, dove un nugolo di donne lavano le lapidi delle tombe e spazzano i fiori secchi dai viali, ma più che un gesto di commozione e rispetto, il loro sembra quasi un passo di danza, la messinscena di un gioco che ha sovvertito ormai quasi tutte le regole, a partire dalla verosimiglianza.
Tra Madrid, dove da tempo si sono trasferite le sorelle Raimunda e Sole, e il loro paese natale, sprofondato nel cuore della Mancha, in cui il vento “Solano” fa scoppiare gli incendi e impazzire la gente, si sviluppa un’incredibile storia di superstizioni familiari e fantasmi, vendette rinviate e misteri. Molti anni prima, in un incendio, sono morti i genitori delle protagoniste, ma nello stesso giorno, misteriosamente, è scomparsa pure una loro vicina. E c’è chi dice, in paese, che nella casa di famiglia continua ad aggirarsi lo spettro inquieto di qualche anima senza pace. Sarà Raimunda, alla fine, a farsi carico di scoprire il mistero e ricomporre (a suo modo) gli equilibri perduti, non prima però di aver sistemato a sua volta le cose col suo uomo fedifrago e violento, anche a colpi di coltello. Difficile, tuttavia, e forse inutile, tentare di tenere il filo di una storia raccontata con i toni della saga popolare, dove nulla è come sembra, una storia senza logica ma dove tutto alla fine coinvolge e persino commuove.
E’ lo stesso Almodòvar a suggerire del resto, con le sue scelte narrative ed espressive, che la vera storia è la solidarietà che si crea tra le donne del film, indipendentemente dalle generazioni (madri e figlie) o dalle classi sociali (borghesi, contadine, puttane), è il sentimento di chi aiuta l’amica a seppellire il cadavere di un uomo che merita di sparire, o che presta qualche chilo di salsicce per permettere un pranzo improvvisato e far fare bella figura, o che si siede a fianco su una panchina, di notte, per ascoltare una confessione che non può essere più rinviata.
Tanto Volver è inverosimile nella rappresentazione degli eventi (le uccisioni, gli occultamenti dei corpi, i tradimenti), quanto è meticoloso e realistico (persino iperrealistico) nel raccontare gli atti quotidiani più minuti. Ma questa è la cifra stilistica più interessante dell’ultimo Almodovar, che insegue con i suoi film una specie di “delocalizzazione realistica”, un modo di fare cinema astratto e popolare, classico ed estremo, che a volte rischia anche l’accademia e la routine, ma a volte riesce a fare il miracolo e allora rende con efficacia impareggiabile le ebbrezze, la follia e le miserie dei nostri tempi incerti.
Tra gli attori, tutti al meglio, da segnalare una bravissima Carmen Maura (che torna a lavorare con Almodòvar dopo l’ormai anticoDonne sull’orlo di una crisi di nervi) e Penelope Cruz che rende, tra l’altro, con il trucco e i vestiti, la camminata e i gesti, un godibilissimo omaggio a due grandi attrici del cinema italiano, Anna Magnani e Sophia Loren.
di Piero Spila