Volevo solo dormirle addosso

Con Volevo solo dormirle addosso, tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Lolli, Eugenio Cappuccio si cimenta in un’amara quanto realistica constatazione dell’universo lavorativo.
Siamo nella fredda e grigia Milano, nell’asettica sede di una multinazionale dove il trentenne Marco Pressi (un persuasivo Giorgio Pasotti), lavora come manager addetto alla formazione del personale. È stimato e rispettato da tutti, sempre sorridente e disponibile, ma altrettanto ambizioso e scaltro. Non si lascia pertanto sfuggire l’occasione di una promozione con annessi diversi benefit, ma dal risvolto pericoloso: licenziare venticinque “unità” (i dipendenti sono soltanto numeri e non persone), in due mesi, pena la stessa sorte riservata alle vittime designate.
In una frenetica corsa contro il tempo, il protagonista cerca di riuscire nell’intento, sfoderando invidiabili capacità retoriche e formidabile cinismo, ma sacrificando moltissimo: il rispetto e la stima dei colleghi, la sua vita sentimentale (già seriamente minata dalla superficialità di lui e della fidanzata nel vivere il rapporto), gli affetti familiari sempre più disertati, e, non ultimo, se stesso.
Così, con il passare del tempo e con l’avvicinarsi della fatidica scadenza, di fronte allo specchio, Marco si sente sempre più un “hombre de mierda” (dall’insulto che la sua donna delle pulizie gli urla continuamente, mentre riordina quel caos di casa). Certamente lui non si “stima molto”, come invece recita la formuletta che usa ripetere agli altri ogni giorno, adattandola alle circostanze, in maniera automatica, ma mai autentica. Finché, il patto stipulato con il diavolo dal protagonista, finisce per tramutarsi in un esemplare contrappasso, ovvero una rapida e umiliante trasformazione da carnefice a vittima, l’ennesima identità schiacciata da una politica aziendale crudele e strumentale.
Con uno stile essenziale e allusivo e indovinando il ritmo narrativo che è incalzante e coinvolgente, Cappuccio propone un attualissimo spaccato del mondo del lavoro, traboccante di ipocrisia, di ricatti morali, di pesanti compromessi che comportano troppe ripercussioni sulla vita privata: l’amore, l’amicizia, la dignità e il rispetto di se stessi, tutti valori che vengono frantumati in nome di una carriera che evade il sentimento e, più in generale, la vita stessa. Peccato però per il cambio di registro scelto per la conclusione, che risulta frettolosa e inutilmente didascalica, in quanto affidata alle parole di una voce fuori campo che si sente in dovere di spiegare l’urgenza, avvertita dal protagonista, di un riscatto morale, già evidentissima alla riflessione dello spettatore.
di Redazione