Vincere
Passione amorosa e annullamento di sé, smania di potere e fallimento, egocentrismo e follia. Vincere di Marco Bellocchio mette in campo poli narrativi opposti, li sviluppa con ellissi rapide ed efficaci, li descrive a volte con abbandono, altre volte con scene madri, e ad un certo punto li mostra complementari e inevitabili, uno effetto dell’altro e viceversa. La passione amorosa è di Ida Dalser, donna intelligente, libera e indipendente, militante socialista che si innamora del giovane Mussolini con l’entusiasmo e il destino segnato delle eroine da melodramma (o da romanzo d’appendice), lo asseconda nei suoi voltafaccia politici sempre più arditi (da socialista massimalista a interventista, da rivoluzionario a nazionalista, da libero pensatore ad alleato dei preti e dei monarchi), addirittura lo finanzia, vendendo casa e gioielli, quando si tratta di aiutare la nuova causa (un giornale, Il Popolo d’Italia, e i manipoli di picchiatori che vanno a devastare la redazione dell’Avanti!). La follia è nella pervicacia del partito preso, nel rifiuto di vedere la realtà delle cose, nell’ostinazione a portare avanti una battaglia sbagliata, perché la Dalser non si batte contro chi l’ha ingannata, umiliata e rinnegata, ma per vedere riconosciuto il suo ruolo di moglie e di madre, e anche di compagna di lotta e quindi di complice. Dati i tempi un’impresa impossibile e votata alla sconfitta, per lei e per il figlio, ancora più innocente. Nel finale la vediamo che ancora non si dà per vinta e, aggrappata alle sbarre del manicomio dove è rinchiusa, continua a gettare nel vuoto le sue lettere scritte a chi non può e non vuole ascoltare la sua verità. Un esito drammatico, che coincide con quello di un intero paese, condotto dall’infatuazione per un leader millantatore e amorale alla dittatura, alla guerra e alla rovina. Sullo sfondo del fascismo visto nella fase della presa del potere e del consenso, delle violenze pubbliche e private, della prevaricazione dei potenti, della vigliaccheria dei sottoposti (prefetti, poliziotti, medici, suore), della paura diffusa nei gangli della vita quotidiana (bellissimi gli squarci familiari dove si parla e ci si intende con i silenzi e i sussurri, fingendo di “non vedere e “non sapere”), Vincere racconta una discesa agli inferi privata e un viaggio nell’ombra con la follia collettiva. Un grande film, uno dei più importanti nella filmografia di Bellocchio, che qui offre oltre alla consueta potenza visiva delle immagini, una messinscena complessa e generosa, che a volte tocca il virtuosismo. Fra il tono acceso del melodramma e il racconto a fosche tinte della persecuzione e della solitudine, il film mantiene una linea essenzialmente antinaturalistica, intersecando e sovrapponendo diversi linguaggi espressivi: la musica spesso quasi operistica ma a volte atonale, l’iconografia futurista, il materiale di repertorio (che il montaggio usa splendidamente) e la fiction, la ricostruzione storica (i primi atti politici di Mussolini, i primi scontri) e l’invenzione (la magnifica scena dell’ospedale, in cui Mussolini ferito riceve al capezzale il re già disponibile ad accordarsi, mentre sul soffitto si proiettano le immagini di un film). Opera personale e, in qualche modo, riepilogativa perché Bellocchio ripropone tutti i temi chiave del suo cinema: l’autoritarismo delle istituzioni, la rabbia antiborghese, la famiglia protettiva e castrante, la polemica antireligiosa molto insistita (ad un certo punto sembra quasi che la colpa più grave di Mussolini sia stato il Concordato). Ma anche un film che parlando di una storia privata realizza un discorso essenzialmente politico, perché parla non tanto del fascismo quanto del sentimento che lo ha reso e rende possibile (un misto di illusione, inganno, ignoranza, abbrutimento). Dalla vanagloria alla catastrofe, dall’esibizionismo al grottesco il passo è sempre brevissimo. La catastrofe verrà con la morte di milioni di uomini, le città distrutte, i vessilli del potere rovesciati; il ridicolo è messo in scena dal duce in persona, nel tronfio discorso su Roma e Cartagine, e sul Mediterraneo che non è un oceano, e dal figlio naturale Albino Benito, che di quel discorso (con le pause e le smorfie) ne fa una macchietta, solo che davanti al primo ci sono folle plaudenti, e qui solo compagni di scuola che deridono. In mezzo ci sono i complici o le vittime che non si rassegnano. Ad un certo punto uno psichiatra consiglia alla Dalser di tenere un atteggiamento diverso, più politico: “Questo è il tempo del silenzio, il tempo degli attori”. Il paese è muto e sordo, compatto e convinto, e allora conviene aspettare, nascondersi, recitare una parte. Lei non lo fa e insiste nella sua ossessione, vuol vedere e parlare, ad altri (la maggioranza) toccherà la sorte dei ciechi guidati da un cieco (quelli che abbiamo visto sfilare di notte davanti ad una panchina e che, oggi, fanno venire un brivido alla schiena). L’attesa sarà breve. Alla prima e all’ultima scena di Vivere c’è un orologio da tasca che Mussolini usa per scandire il tempo: dalla sua sfida lanciata al silenzio di Dio (per lo scandalo dei cattolici e benpensanti) alla risposta durissima della Storia che non potrà mancare.
Piero Spila
Unico film italiano in concorso a Cannes, Vincere di Marco Bellocchio racconta una storia nella Storia, quella della famiglia segreta di Mussolini: un figlio prima riconosciuto e poi dimenticato e una donna (e moglie?) ripudiata e abbandonata, ma troppo innamorata, testarda e orgogliosa per restare nell’ombra senza rivendicare i propri diritti. Operazione complessa e non facile quella di intrecciare ipotesi – il certificato di matrimonio di Ida Dalser e Benito Mussolini non è mai stato trovato – e fatti storici, sfera privata e sfera pubblica, documentario e finzione. Il ricorso a materiale di repertorio si fa massiccio, numerose sovrimpressioni imitano le grafiche dell’epoca, e la colonna sonora fa rivivere la pesantezza fastosa e roboante della dimensione estetica e comunicativa del fascismo: sul piano stilistico le soluzioni di Bellocchio sono originali e apprezzabili in sé, ma nel complesso non rendono il film del tutto amalgamato. Se Vincere ha un difetto è da ravvisare proprio nella scarsa fluidità dell’orchestrazione degli elementi che lo compongono, a tratti sul piano figurativo, e in parte su quello narrativo. Come a dire che i colori che stanno sulla tavolozza sono quelli giusti, ma il loro impasto sulla tela non appare sempre armonioso ed equilibrato.
Gli attori – un ombroso Filippo Timi e una tenace e passionale Giovanna Mezzogiorno – si gettano nell’interpretazione dei protagonisti con veemenza: se il personaggio di Ida Dalser lo richiede, per quello di Benito Mussolini la questione si fa più articolata. Da un lato i modi recitativi lo avvicinano non poco al vero Mussolini che vediamo negli stralci di filmati d’epoca, dall’altro, al contempo, la sua espressività tende ad andare sopra le righe, a rischiare la caricatura. Il punto è che tutti i discorsi del Duce, che dal balcone guardava (dominava) l’Italia sono stati anche – se si vuole analizzare la dimensione specificamente comunicativa – quelli di un oratore/attore al suo pubblico devoto, parole non soltanto pronunciate, ma anche visceralmente interpretate, col linguaggio del viso e del corpo. Basti questo a rimarcare la complessità dell’operazione posta in atto da Bellocchio, che nella seconda parte del film sostituisce all’attore il personaggio storico (che vediamo appunto in immagini di repertorio), per poi far ritornare sullo schermo Filippo Timi, ma stavolta nei panni del figlio del Duce ormai più che ventenne, che imita, davanti agli amici, il dittatore suo padre mentre arringa il popolo italiano. Un gioco di specchi complicato, ma anche un meccanismo non perfettamente oleato che a tratti sembra farsi stridente.
Il film finisce per dividersi quasi nettamente in due parti: nella prima il giovane, impetuoso Mussolini, rivoluzionario socialista, strega Ida col suo carisma. Le scene reiterate della loro intimità piena di passione sono fotografate con una luce livida, che sembra rendere il buio trasparente. Ma mentre la donna si abbandona ai sentimenti, lui sembra già rapito nel vortice della propria personale ambizione, che si rivelerà poi senza limiti. Nella seconda parte il Duce è già un’icona di pubblico dominio, e Ida è sola. Mussolini appartiene all’Italia intera (o meglio l’Italia appartiene a lui), ma non più alla sua amante. E’ proprio questa la parte del film che convince di più, in cui la narrazione si fa più solida e trova il proprio giusto ritmo, e tutto sembra convergere sulla descrizione concitata della protagonista femminile.
Al di là delle imperfezioni che si possono imputare a un film comunque interessante anche se non compitamente risolto, va comunque riconosciuta a Bellocchio la capacità, rimasta sorprendentemente immutata nel corso del tempo, di rappresentare con visionaria lucidità il potere (politico, militare, ecclesiastico) che si fa istituzione, mostrando così la sua faccia più oscura e pericolosa. Ida Dalser e suo figlio, presto separati e ingiustamente rinchiusi in manicomio dove entrambi troveranno la morte, sono esempi sconcertanti di come un potere diabolicamente capillarizzato abbia annientato con ogni mezzo qualsiasi possibile minaccia, presunta o effettiva, alla sua incolumità. Le scene più riuscite del film sono proprio quelle che descrivono la bieca ipocrisia di un potere dalle incarnazioni diverse ma fatto della medesima dannosa sostanza. Marco Bellocchio, soprattutto nella descrizione dei primi, brutali, momenti che Ida trascorre in manicomio, non ha dimenticato di essere stato, nel 1975, il coregista di Matti da slegare, validissimo esempio di cinema di denuncia difficile da dimenticare.
Arianna Pagliara
Vincere di Marco Bellocchio, unica opera italiana in gara al festival di Cannes, è un film complesso, ambizioso, ricco, e soprattutto sembra essere fatto di una materia fortemente sentita dall’autore. È anche vero però che la sua complessità e la sua pienezza non equivalgono a una totale riuscita sul piano espressivo. D’altronde il voler immettere la struttura del melodramma all’interno di un contesto storico che non sia mera cornice o inerte contenitore quanto piuttosto vero e proprio soggetto attivo è una operazione non esente da rischi. Ed è soprattutto nella prima ora di pellicola che si registrano i difetti più vistosi: si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un quadro troppo ristretto che però si ostina a voler racchiudere più elementi possibili. La stessa storia d’amore tra Mussolini e la Dalser in qualche modo stanca e sia Giovanna Mezzogiorno che Filippo Timi sembrano poco convincenti quando devono condividere la scena, mentre appaiono assai più persuasivi e ammirevoli in assenza l’uno dell’altra. Non a caso la seconda parte del film è quella più riuscita, di più ampio respiro e riesce a trasferire allo spettatore una forte dose di tensione e attenzione. Grazie anche all’ottimo apporto di Daniele Ciprì, che in veste di direttore della fotografia, riesce a donare straordinarie sfumature bluastre alle immagini, dal punto di vista plastico-figurativo Vincere si presenta come un lavoro affascinante, potente, che si rifà a certi stilemi delle avanguardie storiche degli anni Venti del Novecento (Bellocchio lo ha definito un “melodramma futurista” e non mancano virate di stampo espressionista); un lavoro più ardito rispetto ad altre opere precedenti dell’autore in qualche modo più “classiche”. Tuttavia anche su questo versante non sempre sono riscontrabili equilibrio e omogeneità e la presenza di inserzioni di materiale di repertorio, se pur preziosa per chiarire alcuni snodi, in qualche occasione risuona ingombrante. È senza dubbio quando si trova a dover mettere in forma quei motivi e quelle ossessioni che cadenzano la sua intera filmografia che il regista de I pugni in tasca dà il meglio di sé: il tema delle istituzioni e dell’autorità, del loro apparato costrittivo che schiaccia l’individuo è una costante del cinema bellocchiano dove anche la famiglia diventa oggetto di vivisezione spietata, colta nei suoi lati “istituzionali” appunto, i più controversi e oscuri. Vincere costituisce, sotto questo aspetto, una iperbole, una summa all’interno del discorso di Bellocchio che torna, dopo l’Aldo Moro di Buongiorno notte, a un’altra “grande” figura paterna. Rispetto all’opera appena menzionata, comunque, viene di gran lunga radicalizzato il teorema. Moro è un padre totale, un padre che però cerca il dialogo coi figli, è il potere sì, ma non quello assoluto e deformante. Mussolini incarna pienamente la duplice immagine di padre-padrone di famiglia e di Stato: egli è l’autorità massima, suprema, il capo di figli legittimi e illegittimi, il proprietario della patria, dell’Italia intera. Il duce è l’uomo che si sbarazza di una moglie e di un figlio “scomodi”, esempi moralmente e congenitamente opposti all’ordine fascista; è però anche l’uomo impettito che da un balcone con la sua voce e i suoi gesti perfettamente studiati incita la piazza, elegge gli italiani a sua prole fiera e guerriera, ma soprattutto ubbidiente e fedele. Per certi versi i brigatisti di Buongiorno notte condividono con Benito Albino la stessa condizione, lo stesso status di figli “anormali”. Una condizione simile che nasce però da motivazioni del tutto opposte: i carcerieri di Moro si “trasformano” in figli illegittimi rifiutando il padre; in Vincere Benito Albino “nasce” illegittimo perché è il padre che ne vieta l’esistenza. Anche le modalità di ribellione assumono forme diverse: i brigatisti muovono guerra al padre ma la loro si rivela essere più che altro rivolta sterile e infantile, ed è così che Moro all’albeggiare di un nuovo giorno può abbandonare la sua cella e tornare a casa camminando per le strade desolate di Roma. In Vincere Benito Albino è conscio della sua solitudine, della sua impotenza e la sua ribellione pertanto può essere solo simbolica: scaraventando una scultura che riproduce la testa di suo padre sul pavimento o imitandone in modo caricaturale e farsesco i movimenti, la mimica e le parole in una prova d’attore che inverte il segno della performance paterna, tutta d’un tratto spogliata di ogni residuo eroico-romantico. A differenza della favola di Buongiorno Notte dove la Storia si rifugia in un angolo e lascia che il padre possa salvarsi perché questa volta sono i figli che, troppo arrabbiati ma sprovveduti e arroganti, hanno sbagliato, in Vincere la Storia non apre alcuno spiraglio per fughe possibili ma potrà e dovrà servirsi di una enorme pressa per schiacciare il testone del dittatore, come ci viene mostrato in una delle scene più suggestive del film.
Leonardo Gregorio
di Piero Spila