Vi presento Toni Erdmann
Ines Conradi è il prototipo perfetto della moderna donna in carriera in versione 2.0. Quarantenne single del tutto anaffettiva, drogata di lavoro e inadatta a ogni forma di rapporto interpersonale non inserito nel contesto professionale, si guadagna (bene) da vivere facendo la consulente per una multinazionale americana (anche se di fatto taglia con gelida freddezza i rami secchi di quelle compagnie presso le quali viene inviata a dare saggi consigli su come incrementare la produttività entrando a gamba tesa sul cosiddetto «capitale umano»).
Una vita del genere nasconde però una lunga scia di detriti esistenziali. Uno dei quali, forse il più ingombrante e non solo a livello emotivo, è rappresentato dal rapporto col padre, l’insegnante in pensione Wilfried, un corpulento omaccione che sembra un detrito della sbronza libertaria degli anni ’60 e che arrotonda gli introiti intrattenendo a domicilio bambini e malati con gag in costume e scherzi grevi che ama però fare anche quando non viene pagato per metterli in atto (come si può vedere già nella sequenza di apertura dove Wilfried sconcerta un corriere fingendo di avere un gemello).
Non ostante l’innegabile legame genetico che li unisce, le distanze tra i due non potrebbero essere meno siderali. Soprattutto per Ines, troppo immersa nel lavoro per poter dedicare del tempo alla ricostruzione di un rapporto forse veramente mai stato tale fin dai tempi della sua prima adolescenza. Soprattutto quando la vediamo irrompere nel film, impegnata com’è in un cruciale fine settimana a Bucarest durante il quale dovrà convincere i vertici di un’azienda romena controllata dalla multinazionale USA per la quale la donna fa la consulente a versare lacrime e sangue impiegatizio per non chiudere i battenti.
Ma è proprio in quel contesto che il padre le fa una spiacevole improvvisata, promettendo prima una visita lampo per festeggiare in lieve anticipo il compleanno della figlia («perché i voli costavano meno»), ma finendo poi col fermarsi qualche giorno di più. Giusto il tempo per trasformarsi nel Toni Erdmann del titolo. Ovvero un personaggio di fantasia con parrucca a pelo lungo e dentiere posticce a metà tra un clown costantemente alticcio e una maschera grottesca inventata apposta per minare le solide certezze della figlia ma col segreto intento non solo di farle riacquisire uno straccio di umanità facendole aprire gli occhi di fronte alla ferocia del suo lavoro, ma anche di (ri)costruire quel legame padre-figlia mai veramente sbocciato.
Da quel momento in poi Toni Erdmann diventa per la povera Ines (che però sta al gioco e finge di non riconoscere il genitore) un incubo a occhi aperti. Si infila nei meeting di lavoro fingendosi ciò che non è, s’imbuca in party esclusivi spacciandosi per l’ambasciatore tedesco, e disarma chiunque con freddure raggelanti. Ma soprattutto non smette di far morire di vergogna la malcapitata figlia, che tuttavia non reagisce come lo spettatore si aspetterebbe (visto che in parte prova pena per le umilianti performance del padre che col loro succedersi sempre più inopportuno e lunare contribuiscono a far nascere in lei un progressivo e costruttivo distacco dal ruolo di fredda manager capace di immolare tutto sull’altare della carriera).
Scritto e diretto dalla tedesca Maren Ade — qui al suo terzo lungometraggio dopo The Forest for the Trees ed Everyone Else, grandi successi di critica e pubblico rispettivamente al Sundance Festival del 2005 e alla Berlinale del 2009 —, Vi presento Toni Erdmann è una commedia grottesca con forti venature di satira sociopolitica che ha raccolto premi e riconoscimenti in giro per il mondo (ivi compresi il Premio Fipresci a Cannes nonché l’approdo alla prestigiosa cinquina finale degli Oscar nella categoria del miglior film in lingua straniera, battuto sul filo di lana dall’iraniano Il Cliente).
Spesso il cinema tedesco è stato accusato di saper produrre solo film grevi, figli di una cultura riflessiva e posata che ama analizzare lo stare al mondo di un popolo leader in Europa investigandone le profonde contraddizioni sociali ma anche cercando di mettere alla berlina —quasi sempre con algido distacco e senza mai sfociare in una risata liberatoria — tic e manie comportamentali di individui incapaci di prendersi in giro ricorrendo a robuste iniezioni di sana autoironia.
Chi quindi persiste nella convinzione che il cinema tedesco non sappia far ridere anche quando avrebbe in programma di farlo è però bene che non si perda questa dilatata farsa che sfrutta il pretesto di raccontare un tentativo di riconciliazione tra padre e figlia per affrontare temi che ben poco hanno a che fare con quel viaggio asfittico in stile «parenti serpenti». Temi di grande respiro che costringono lo spettatore a riflettere sull’Europa a due velocità, sul cinismo di tagliatori di teste come la protagonista Ines ma soprattutto sull’atteggiamento di paesi come la Romania, pronti e proni nella sbronza del post Comunismo ad accogliere in patria compagnie straniere senza accorgersi di progetti di spolpamento a lungo termine travestiti da impulsi allo sviluppo dell’economia locale.
In Vi presento Toni Erdmann si ride a denti stretti delle gag grottesche che Wilfried/Toni organizza per terremotare il territorio lavorativo ed esistenziale in cui si muove la figlia (gag che, insieme al personaggio stesso, la regista Maren Ade ha ammesso di aver modellato su Tony Clifton, uno dei tanti alter ego del comico americano Andy Kaufman). Ma per quanto i molti siparietti grotteschi allestiti dal protagonista rischino di catalizzare l’attenzione dello spettatore, il cuore vero dell’intera operazione è forse un altro.
Più il goffo Wilefried si impegna in travestimenti per nascondere la propria vera identità e anche per mascherare la propria inadeguatezza nel ruolo di padre fallito (e lasciato dalla moglie e madre di Ines, risposatasi con un uomo di successo), più diventa chiaro il percorso di evasione della figlia dalla corazza che si è costruita intorno al cuore per tamponare i rischi del cedimento agli affetti e per evitare che il valzer imprevedibile dei sentimenti possa distoglierla dalla monomania professionale.
Non è quindi un caso che padre e figlia finiscano con l’incontrarsi nel finale (dove Ines mostra al pubblico di aver accettato in toto il riavvicinamento col padre mettendosi in bocca una delle dentiere usate da quest’ultimo per i molti suoi sketch nei panni di Toni Erdmann) a seguito di percorsi diametralmente opposti attraverso la conquistata consapevolezza della propria vera natura: Ines arriva letteralmente nuda alla meta nella riuscitissima scena del party da lei organizzato per fare team building coi colleghi, mentre Wilfried vi si presenta con addosso un costume da kuker bulgaro che lo copre per intero con una fitta pelliccia e un casco cieco e impedisce a chiunque di riconoscerne le fattezze.
Esageratamente dilatata nella lunghezza (due ore e quarantadue minuti) con scene che vengono intenzionalmente prolungate a dismisura da una regia che si sofferma con cattiveria sul denudamento dell’interiorità dei personaggi, questa tragicommedia farsesca venata di sana scorrettezza politica è un racconto diseducativo — forse un po’ sopravvalutato da quanti l’hanno accolto in patria e in Francia come un capolavoro prima del suo approdo nelle nostre sale — che ha però il coraggio di mettere in scena la fuga di un corpo, quello di Ines, dall’oppressione del capitale mascherandone il viaggio di liberazione interiore dietro il paravento della ricostruzione di un rapporto tra padre e figlia.
Trama
Un’algida donna in carriera concentrata solo sul lavoro ricostruisce col padre insegnante in pensione (corpulento burlone col vizietto dello scherzo pesante e del travestimento clownesco) un rapporto che le è sempre mancato. Ma lo fa alla fine di un lungo e tormentato fine settimana in cui l’ingombrante figura paterna arriva senza preavviso rischiando di rovinarle un importante incontro al vertice a Bucarest.
di Guido Reverdito