Vento di primavera

Uscito in Francia nel marzo scorso, approda nelle nostre sale  proprio nel  “Giorno della memoria” (istituito in Italia da una legge del 2000 per ricordare la Shoah e quel 27 gennaio 1945 in cui furono abbattuti i  cancelli di Auschwitz) Vento di Primavera di Rose Bosch, giornalista, sceneggiatrice e regista da noi poco nota, prodotto da suo marito  Ilan Goldman (tra i suoi successi recenti il biopic sulla Piaf La vie en rose, 2007).

Diciamo subito che i meriti maggiori dell’opera riguardano  a nostro avviso più l’idea di messa in scena e il processo creativo.  In primo luogo, la decisione di portare sullo schermo  un episodio in fondo poco esplorato dalla pur infinita letteratura sulla Shoah: il rastrellamento degli ebrei parigini occorso nella notte del 16 luglio 1942  quando la polizia militare francese del governo collaborazionista del maresciallo Pétain  arrestò 12.884 persone tra cui 4.051 bambini. Le vittime rimasero stipate per cinque giorni, in condizioni igienico-sanitarie allucinanti,  nel  ‘Velodromo d’inverno’, poi recluse nel campo di prigionia di Beaune-La-Rolande, infine, dopo la separazione tra madri, padri e bambini, avviate ai forni crematori. Peraltro, come ricorda la didascalia finale, l’obiettivo dei nazisti era  rastrellare tutti i circa 25.000 ebrei parigini e il lavoro sporco condotto dalla polizia francese fu considerato un fallimento; in effetti, 12.000 ebrei riuscirono a scappare o trovare rifugio grazie all’aiuto della popolazione locale. Ma gli adulti sopravissuti a quella retata furono appena 25 e tra loro nessuno dei bambini (si calcola che oltre un milione di bambini ebrei furono vittime della Shoah). Il film si basa poi su oltre tre anni di ricerche  della regista (anche autrice dello script) su materiali storici e d’archivio, sulle testimonianze dei sopravvissuti, e sull’incontro fortuito con uno di questi, Joseph Weissmann, allora undicenne, che era riuscito a scappare con un altro coetaneo prima della deportazione finale. Sarà l’adolescente Hugo Leverdez a restituirgli il suo volto di adolescente nel film, cosi come a figure storiche sono ispirati i personaggi del medico, il dottor Sheinbaum (Jean Reno), e dell’infermiera Annette Monod (Mélanie Laurent). Ebreo il primo, considerata “pura francese” (nella razzistica  visione nazista) la seconda, entrambi ebbero un ruolo di primo piano in tutta la vicenda, aiutando le vittime, dalla reclusione nel Velodromo sino all’internamento nei campi. La Monod scelse  perfino di partire con i deportati ignorando la loro destinazione finale. Dalle sue testimonianze, la regista ha tratto anche l’invenzione del  personaggio del piccolo “Nono”, che nel film ha appena 5 anni.

Come si sa, anche il cinema di finzione ha esplorato con i più diversi registri le tragedie della Shoah, quelle degli adulti  come quelle dei bambini, assumendo spesso come centrale proprio lo sguardo dell’infanzia. E sarà dunque per gli esempi di grande cinema che fanno parte ormai del nostro immaginario che l’esito complessivo di questo film -a dispetto di un materiale incandescente- ci ha emozionato solo a tratti, lasciandoci la sensazione di un amalgama non riuscito. Sul piano stilistico come su quello narrativo, con tanti personaggi, adulti e bambini appunto, che restano spesso poco definiti, e dove l’interpretazione controllata di attori ben noti (come appunto Reno e la Laurent) finisce per stridere con la naturalezza dei tanti volti e corpi di non professionisti che affollano lo schermo.  Forse per restare fedele al suo copioso lavoro d’inchiesta, la regista ha cercato  di tenere insieme diversi piani narrativi. Ma se la ricostruzione storica degli accordi scellerati tra i nazisti, il governo Pétain e la polizia francese risulta assai superficiale, sfiorano la macchietta,  la figura di Hitler e del suo entourage, nella ricostruzione ormai stereotipata della sua casa di vacanza del Berghof  (forse valeva  ricorrere anche qui a immagini d’archivio come quelle dell’arrivo dei gerarchi nazisti in una Parigi deserta che aprono il film). Bozzettistiche, anche sul piano della scenografia,  appaiono poi le scene  di  vita quotidiana degli ebrei parigini a Montmartre. Dove il film ha uno scatto d’ala è invece nelle sequenze  drammatiche del rastrellamento notturno e, soprattutto, in quelle nel velodromo (ovviamente ricostruito con grande dispendio finanziario, anche per il numero delle comparse) quando  la regista riesce spesso a far cogliere alla cinepresa la prospettiva  straniante  data dallo sguardo degli adolescenti e dei bambini (questi ultimi impegnati anche a giocare). Salvo poi ricadere in clichés drammatici, come nelle scene della separazione dei bambini dai loro genitori, nel racconto della detenzione nel campo, prima di un finale un po’ consolatorio.

Ma, al  di là della personale delusione, resta un film sincero nelle  motivazioni anche autobiografiche (della regista e del produttore), che illumina una pagina rimossa della Storia, però sempre attuale se serve a ricordarci che l’oppressione delle minoranze si fonda sul silenzio di maggioranze che perdono la capacità di indignarsi, prima ancora che il coraggio di ribellarsi.


di Sergio Di Giorgi
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