Unbroken

Film candidato a tre Oscar, epico e molto virile nello sviluppo, è diretto da Angelina Jolie con grinta e, in modo discontinuo, con bravura. È un biopic su Louis Zamperini, figlio di immigrati italiani negli States che da ragazzo dedito a piccoli furti si trasformò in campione olimpico, partecipando all’agone nel 1936 a Berlino, poi in eroe della Seconda Guerra Mondiale, e infine in redicatore del vero cattolicesimo.
C’era stata nel 1957 l’idea di affidare questa storia all’interpretazione di Tony Curtis, ma solo dopo che nel 2010 uscì Unbroken: A World War II Story of Survival, Resilience, and Redemption di Laura Hillenbrand, si tornò a pensare alla realizzazione di un film che fece suo Angelina, la quale conosceva personalmente Zamperini, tanto da affidargli nella stesura della sceneggiatura il compito di un controllo biografico per evitare inesattezze. Zamperini, oltretutto, è morto a 97 anni nel 2014 è ha avuto la possibilità di vedere l’opera finita.

La realizzazione di un prodotto che abbia quasi le caratteristiche della perfezione, ha limitato Angelina Jolie nelle possibilità espressive. È difficile trovare qualcosa che non funzioni ma, nello stesso tempo, il film non riesce mai realmente ad emozionare. Sembra di assistere a una prova d’esame in cui la Jolie mette il massimo impegno per non sbagliare nulla ma in questa maniera non si lascia mai andare e non riesce a trasfondere emozioni.
Il bravissimo direttore di fotografia britannico Roger Deakins, che con questo film raggiunge la dodicesima nomination agli Oscar, mette a disposizione della regista tutta la sua esperienza e duttilità, scrivendo lui stesso molte scene del film, soprattutto quelle dell’inizio in cui si racconta del povero figlio di emigranti sbeffeggiato da tutti. Inoltre, utilizza fondali digitali di ultima generazione che non sono nelle sue usuali tecniche di ripresa ma che lo aiutano a creare cromatismi a tratti affascinanti. Realizza dei veri e propri quadri che donano momenti di arte vera. Ma il ritmo, la vis drammatica la dovrebbe inserire il regista, e qui è assolutamente mancante.

La brava attrice vuole dimostrare a se stessa, e agli altri, di non essere solo un’icona della bellezza; ha una vita impegnata nel sociale, ha ideali importanti, ha trasformato la propria vita in un messaggio umanitario tanto da essere anche ricevuta da Papa Francesco. Quindi, è plausibile pensare che lei veda il suo futuro più come autore che non interprete di storie. Ha bisogno di apparire come artefice del suo futuro, come persona che lasci un segno nel microcosmo del cinema.

Angelina è qui alla sua terza direzione dopo il mediocre documentario A Place in Time (2007) che invoca alla fratellanza e il pessimo film del debutto Nella terra del sangue e del miele (In the Land of Blood and Honey, 2011) che racconta della guerra in Bosnia. Nonostante le deludenti premesse, si è imbarcata in un progetto pretenzioso, sicuramente al di sopra delle sue capacità con l’idea di creare un kolossal e realizzando, invece, un grosso film che poggia su basi di argilla. Si è attorniata di collaboratori di primissimo livello, ha puntato molto sulla sceneggiatura ma non l’ha saputa realmente rendere cinematograficamente interessante.

È un film che ha avuto i primi travagli proprio nella fase di scrittura. Da una iniziale sceneggiatura scritta da Richard LaGravenese considerata poco cinematografica, si è passati alla riscrittura da parte di due amici di lusso della Jolie, Ethan Coen e Joel Coen. Ma anche questa trasformazione non convinceva soprattutto i produttori, che affidarono il ponderoso scritto al esperto William Nicholson che spazia senza problemi tra film dissimili tra loro quali Les Misérables (2012), Il Gladiatore (2000) e che ha scritto anche un biografico quale Mandela: Long Walk to Freedom. Risultato finale un po’ deludente e che probabilmente non ha aiutato la regista nel creare un film compatto in cui i tre momenti della vita di Zamperini possono sembrare addirittura film differenti soprattutto nella scrittura.

Bella la parte iniziale in cui il ragazzino dedito a furtarelli viene aiutato a divenire un grande dell’atletica leggera; interessante anche se troppo lunga la parte del naufragio in mezzo all’Oceano, mai coinvolgente il racconto della prigionia. Proprio nella fase iniziale Roger Deakins ha dato il meglio, creando emozioni visive interessanti che facevano sperare in un film migliore. Zamperini sul bombardiere è raccontato senza troppa bravura ma, dopo che l’aereo precipita nell’Oceano per un guasto, la narrazione sembra farsi più interessante.
Quarantotto giorni alla deriva con i drammi dei tre sopravvissuti affascinano fino a quando le scene non divengono ripetitive e, a tratti, molto poco credibili.

La parte finale, in cui si racconta con dovizia di particolari la terribile prigionia coi carnefici nipponici che trattano sadicamente i militari alleati, secondo le intenzioni della Jolie doveva essere la più vibrante e, invece, si trasforma in un interminabile susseguirsi di scene fin troppo simili tra loro.
Il ventiquattrenne attore britannico Jack O’Connell si impegna al massimo, ma non riesce mai ad essere convincente. Gli manca l’esperienza ma, soprattutto, i consigli per potere fare meglio.

TRAMA

La vita di Louis “Louie” Zamperini, figlio di poveri emigranti italiani negli Stati Uniti, da ladruncolo a campione olimpionico nel 1936 nei 5000 metri a Berlino, alla sua partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale come puntatore su di un bombardiere che precipita nel 1943 in mezzo all’Oceano per un guasto.  Quarantotto giorni su di una scialuppa, e poi vengono recuperati dai giapponesi. Due anni passati da un campo di prigionia all’altro, incontrando sadici aguzzini come il sergente Watanabe e misurandosi ogni giorno con la possibilità di essere uccisi, fino alla resa del Giappone e alla liberazione. Conclusa la guerra gli incubi lo tormentano, portandolo a rifugiarsi nell’alcol. Poi il matrimonio e la riscoperta della fede.


di Redazione
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