Un sapore di ruggine e ossa

Acclamato a Cannes lo scorso maggio e salutato dalla critica come un approdo necessario dopo cinque titoli all’insegna del cinema scabro ed essenziale di chi racconta la realtà e le sue storture senza mai voler compiacere nessuno, arriva anche da noi il sesto film del sessantenne regista e sceneggiatore parigino Jacques Audiard, che nel 2009 vinse il Gran Premio della Giuria sempre sulla Croisette con Il profeta, uno dei film più originali e riusciti degli ultimi anni.
Melodramma espressionista – come l’autore lo ha definito -, Un sapore di ruggine e ossa racconta la vicenda di Ali, uno spostato che vivacchia nel Nord della Francia sopravvivendo grazie ai proventi che gli derivano dai successi sui ring violentissimi della boxe clandestina. Dopo essersi però rotto in maniera irreparabile una mano e aver così dovuto dare l’addio al mondo del pugilato in quella ruvida versione da banlieu, il malcapitato scopre di lì a poco di avere un figlio di cinque anni che gli è stato affidato dall’ex-compagna, un’altra misfit coi fiocchi che aveva così poco affetto materno da dedicare alla povera creatura da usarlo per trasportare droga da vendere. Senza un soldo, una casa e un domani, Ali si carica il figlio in spalla e parte alla volta di Antibes, dove la sorella lo accoglie mettendogli a disposizione un garage in cui vivere e offrire un qualcosa che assomigli un tetto allo sbalottatissimo bambino.
Dopo aver trovato lavoro come buttafuori in una discoteca, a seguito di una rissa scoppiata davanti al locale conosce una bellissima ragazza cui lascia il proprio numero di cellulare, non potendo prevedere, viste le enormi differenze socioculturali, che non molti giorni dopo una sua chiamata gli avrebbe cambiato la vita per sempre. Istruttrice di orche nel parco acquatico della città, Stephanie – questo il nome della fascinosa borghese che il coatto di periferia ha incontrato la notte – lo chiama per risucchiarlo nei vortici esistenziali in cui la vita l’ha trascinata: un assurdo incidente di lavoro l’ha sbattuta per sempre su una sedia a rotelle, dopo che una delle orche con cui lavora le ha asportato parte delle gambe mutilandola per sempre nel corpo e nell’anima.
Lontani anni luce per estrazione sociale, cultura e capacità di adattamento ai ritmi della vita integrata, nel pieno dell’emergenza di esistenze annichilite dall’orrore della Natura ribellatasi alle regole dell’uomo e insieme dal disagio dell’emarginazione, i due estranei iniziano un percorso di avvicinamento progressivo che li porta a darsi reciprocamente forza e a convertire in traballante armonia di coppia il disagio del disadattamento. Un percorso giocato tutto sullo scontro di corpi in un tripudio di fisicità mai compiaciuta e quasi sempre ai limiti del fastidioso, che attraversa il film come un basso continuo sciorinando senza vergogna mani che si fratturano combattendo per sopravvivere, corpi che cozzano gli uni con gli altri per sopraffarsi ma anche per coniugarsi in amplessi disarmonici, per finire con arti fagocitati per sbaglio e mostrati nei loro relitti di moncherini insostenibili alla vista.
Lo schema degli opposti che si attraggono e che trovano la forza per affrontare le avversità della vita nella comunione delle proprie diverse emarginazioni non è certo una novità nel cinema di Audiard, visto che già al centro di Sulle mie labbra del 2001 c’era un’altra coppia di spaiati (una segretaria borghese sordomuta e un ex carcerato rozzo ai limiti della barbarie che coniugavano la propria diversità per corazzarsi contro la vita). Un meccanismo narrativamente efficace riproposto poi in parte da Audiard anche nel successivo Tutti i battiti del mio cuore, là dove un violento travestito da immobiliarista d’azione riusciva a dare un senso alla propria vocazione artistica grazie alle lezioni impartitegli da una concertista cinese ugualmente emarginata perché immigrata clandestina incapace di comunicare in francese.
La ruggine interiore che affligge il cuore arido di Ali (reso duro da una vita in cui gli è mancato tutto a partire dai fondamentali di base per arrivare alle opportunità che ognuno dovrebbe avere) si coniuga alla perfezione con le ossa tronche delle gambe di Stephanie, dando vita a una potente metafora visiva in cui la diversità porta all’aggregazione contro ogni legge fisica e sociale. Ed è infatti così che il destino di apparente emarginazione di due freaks inevitabilmente condannati a vivere in disparte perché dispari rispetto agli standard della normalità diventa un percorso a due verso l’integrazione e l’armonia fatta di affetto estremo e di mutuo sostegno contro le avversità del mondo.
Dopo l’educazione criminale di Un profeta, con questo Un sapore di ruggine e ossa (tratto dai racconti di Ruggine e ossa dello scrittore canadese Craig Davidson), Audiard sforna una sua personalissima versione di (ri)educazione sentimentale, nella quale lo spettatore finisce col lasciarsi convincere di come dietro anche alla più feroce delle disgrazie si possano annidare i germi della bellezza a patto che qualcuno – magari a sua volta penalizzato da una vita difficile – sia in grado di leggerli e apprezzarli per quello che sono. Ovvero antidoti al male di vivere subito sulla propria pelle.
Trama
La tormentata storia d’amore tra un disadattato e una bella ragazza rimasta senza parte delle gambe a seguito di un assurdo incidente sul lavoro.
di Redazione