Un ragazzo d’oro
Ormai da vario tempo il cinema di Pupi Avati non riesce più ad emozionare nonostante i suoi sforzi per proporre sempre prodotti quantomeno professionali. La sua vena di narratore si è dispersa nel corso dei quasi quaranta titoli diretti e, ora, sembra sempre di vedere film troppo prevedibili, datati nella struttura e privi di emozioni. Qui rispolvera uno dei suoi temi preferiti, il rapporto figlio e padre, che lo coinvolge emotivamente anche in maniera autobiografica. Ma questa tematica, come del resto ne Il Papà di Giovanna (2008) o Il figlio più piccolo (2010), viene sviluppata in maniera troppo partecipe per potere essere realmente funzionale.
Il soggetto, scritto assieme al figlio Tommaso con cui aveva collaborato per suoi lavori televisivi, ha una costruzione semplice anche se la sceneggiatura tende a creare o a sviluppare situazioni che possono mettere in crisi il protagonista. Si parla di un giovane romano che lavora a Milano come creativo in una società del settore pubblicitario ottenendo anche qualche gratificazione, della presenza incombente su tutta la sua vita del padre che vive a Roma con la madre, del suo odio nei confronti di questo genitore non tanto perché fosse stato autore di sceneggiature di commedie all’italiana non certo raffinate ma perché si sente non amato da lui. Ha forti disturbi mentali, vive sotto psicofarmaci, è fidanzato con una bella farmacista ex del suo capo. Vorrebbe fare lo scrittore ma non ha nelle sue corde la capacità di scrivere romanzi e i suoi bei racconti non gli permettono di attirare gli interessi dell’editoria. Torna a Roma dopo che il padre sessantacinquenne è tragicamente morto in un incidente stradale, che ha tutte le caratteristiche di un possibile suicidio. Riallaccia senza problemi i rapporti mai realmente interrotti con la madre ma non riesce ad accettare gli ex colleghi del padre, soprattutto il regista con cui aveva realizzato i suoi film.
Appare, poi, una bella donna statunitense ex attrice ed ora editore che lo contatta perché il padre, forse anche suo amante, aveva iniziato a scrivere un libro che lei avrebbe pubblicato. Dopo avere letto una sceneggiatura bella e inedita del congiunto, si convince di non averlo capito e accetta di collaborare con la donna anche quando si rende conto che il libro non esiste, che il padre non era stato in grado di scriverlo. Rinuncia a se stesso, abbandona le medicine che limitano il suo cervello, scrive lui il libro che uscirà come opera postuma del genitore, vincendo anche il Premio Strega.
Il film ha come protagonista Riccardo Scamarcio, a cui non bastano un paio di occhiali da intellettuale per trasformarlo magicamente e renderlo credibile nel suo personaggio. Evidenzia limiti interpretativi e il suo “figlio dolente” vive i momenti migliori quando non gli sono richieste battute e la vis drammatica viene in gran parte affidata alla forza narrativa delle immagini firmate da Blasco Giurato. Pur notando un progressivo miglioramento nelle sue capacità interpretative, Scamarcio non è ancora pronto per interpretare film di questo tipo soprattutto se la regia sembra latitare e, quindi, non aiutarlo a superare i momenti più difficili. A dire poco incapace di convincere nella scena della premiére del film tratto dalla sceneggiatura inedita del padre. Diretta dal solito autore di tanti lavori del morto, si risolve in una rilettura volgare di un testo raffinato. Qui Scamarcio lancia epiteti, viene trattenuto perché forse vorrebbe picchiare il regista e, strattonato, esce dalla scena ancora in maniera meno credibile da come era entrato.
La settantanovenne Giovanna Ralli è bravissima nel tratteggiare quanto offertole dalla sceneggiatura, donando silenzi e brevi frasi rassicurante di madre che ama profondamente il figlio e che al marito ha saputo perdonare scappatelle varie ma non quella confessata con l’americana.
La solitamente brava Cristiana Capotondi qui non è mai in grado di fornire visibilità alla sua fidanzata apprensiva e, forse, innamorata. Si parla del amore con il capo di Scamarcio forse mai realmente finito, del suo rapporto con questo uomo così complesso che sembra più quello di un’infermiera che non quello di ragazza perduta nell’amore. Viene quasi da pensare che i due si siano conosciuti in Farmacia, dove lei lavora, durante l’acquisto delle medicine della terapia psichica.
Non sappiamo la ragione della scelta di Sharon Stone, forse legata alla speranza di vendere il film anche all’estero. Di sicuro, la sua prova è a dir poco deludente e sembra che non abbia vissuto l’atmosfera della realizzazione del prodotto, non sentendosene mai neppure marginalmente coinvolta. Probabilmente, è stata a Roma il tempo sufficiente per girare le scene ma assolutamente troppo breve per capire cosa Avati volesse da lei.
È un’apparizione che poco ha a che fare col cinema del regista bolognese, è una presenza scomoda per il suo nome roboante legato ad una prova terribilmente povera. Da’ l’impressione che la sua parte sia stata ridotta in fase di montaggio: solo in questa maniera si potrebbe perdonare l’assoluta incompiutezza della sua prova.
Le musiche autoriali di Raphael Gualazzi poco condividono con quanto passa sullo schermo. Cantautore e pianista che nel 2011 aveva vinto la categoria Giovani del Festival di Sanremo con il brano Follia d’amore, interprete soul di buon valore, qui sembra non avere voluto sottolineare le immagini ma imporre i suoi brani.
Blasco Giurato è bravissimo come sempre. Le sue immagini raccontano senza urlare, aiuta senza farsi notare quanto la sceneggiatura spesso non è stata in grado di raccontare.
Pupi Avati difficilmente stupisce con trovate originali o geniali, spesso il suo cinema è stato una ripetizione di quanto già proposto nelle sue opere precedenti. E’ un regista che rispetta fin troppo quanto scritto nella sceneggiatura, che non concede voli pindarici.
E’ coerente con se stesso e con il suo stile ma, forse, non ha saputo nel corso degli anni e dei lavori realizzati confermare il piacere che aveva fatto provare con i suoi primi titoli, forse più ingenui ma sicuramente più interessanti. Con un inizio legato a titoli quali La casa dalle finestre che ridono (1976) ma anche Balsamus, l’uomo di Satana (1970) e La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone (1975) si poteva immaginare ad una carriera ultraquarantennale più ricca di appuntamenti da ricordare.
TRAMA
Davide Bias ha lasciato Roma e vive a Milano, è fidanzato con la farmacista Silvia, lavora come creativo pubblicitario e sogna di entrare nel mondo dell’editoria, ma non riesce a scrivere un libro pur essendo autore di buoni racconti. Vive assalito da ansia ed insoddisfazione, è seguito da uno psichiatra e riesce ad avere una vita normale solo con l’utilizzo degli psicofarmaci. Alla morte del padre, uno sceneggiatore di commedie di serie B, torna a Roma dove decide di trasferirsi per stare vicino alla madre e, forse, per ritrovare se stesso. Qui incontra Ludovica, un’editrice forse amante del padre con cui l’uomo avrebbe dovuto pubblicare la sua autobiografia. Davide deciderà di scrivere lui il libro, come se fosse il padre, così da potersi riconciliare finalmente con la figura paterna. Questo lo costringerà a rinunciare alla propria vita, rintanandosi pe sempre all’ombra della figura del padre vincitore col libro postumo del Premio Strega.
di Redazione