Tutto può accadere a Broadway

Peter Bogdanovich non girava un film da ben tredici anni. E cioè dal cupo e non certo memorabile Hollywood Confidential uscito nel 2001. Da allora questo onnivoro cinefilo newyorkese che a partire dai primi anni ’70 decise di dare il colpo di grazia al sistema degli studios hollywoodiani sfornando pietre miliari del miglior cinema crepuscolare «contro» di quegli anni si è limitato a vivacchiare in TV (con un documentario di 4 ore su Tom Petty e un TV movie su Natalie Wood) e dando il meglio di sé nella regia di un episodio della serie I Sopranos. Serie nella quale gli appassionati hanno imparato ad amarlo come interprete del terapeuta della dottoressa Melfi.

Davvero ben poca cosa per un autore capace di infilare, nel breve lasso di tempo di un decennio, capolavori del calibro di L’ultimo spettacolo, Ma papà ti manda sola?Paper Moon, Vecchia America, nonché il giustamente osannato … e tutti risero. In questi lunghi tredici anni di assenza dalle sale sono stati in tanti a dare per spacciato il talento di Bogdanovich, sbrigandosi a sentenziare che la discontinuità di un regista e sceneggiatore di razza capace però degli alti e bassi tipici dei grandi fuoriclasse avesse visto irreparabilmente prevalere la mediocrità del minimo sindacale sui guizzi di genio allo stato puro.

Vedendo però questo Tutto può accadere a Broadway (ridicolo titolo italiano per l’originale inglese che punta invece tutto su un aspetto del carattere della protagonista femminile citando una battuta presa di peso da Fra le tue braccia di Lubitsch), anche i più accorati sostenitori del de profundis creativo da recitare al funerale cinematografico di Bogdanovich avranno modo di gioire al vederne risorgere dalle proprie stesse ceneri l’amato mix di commedia intelligente e venata malinconia che è stata la ricetta vincente di tanto suo cinema.

Nostalgico come sempre di quell’età dell’oro di Hollywood che non ha mai fatto segreto di rimpiangere come un’era irripetibile prima che tutto precipitasse nel lungo declino che è stata la storia del cinema degli ultimi sessant’anni, in questo suo ritorno sulle scene (presentato fuori concorso a Venezia lo scorso settembre) Bogdanovich riprende i toni della commedia screwball tutta battute al fulmicotone e scontro tra i sessi colorandola coi toni di un romanticismo mai mieloso e gli sprazzi lunatici di quell’assenza di logica capace da sola di rendere credibile le più surreali delle situazioni.

Il risultato è un tuffo nel passato remoto profondamente démodé che coniuga il garbo di Lubitsch al jazz verbale del miglior Woody Allen (qui chiaramente citato in apertura e da molti chiamato in causa per i numerosi accenni a Pallottole su Broadway), riproponendo una forma di umorismo anacronistica che, anche se in apparenza figlia di un giurassico del cinema rimpianto ed evocato con nostalgica malinconia, dimostra come si possa ancora far ridere di cuore col semplice ricorso alla pochade degli equivoci a incastro e alla messa in ridicolo dei tic e delle fisime tipiche del mondo dello show business hollywoodiano.

Con questo non si pensi al canto del cigno di un cineasta attempato deciso a congedarsi dal proprio pubblico con un’ultima riproposizione dei numeri di prestigio che ne hanno reso celebre l’arte. Tutt’altro. Il film di Bogdanovich è l’opera di un iconoclasta di 77 anni rimasto giovane dentro e allo stesso tempo capace di adeguare la ricetta del proprio cinema ai tempi che corrono per metterli alla berlina, evitando però che il compromesso per il ritorno sulle scene debba snaturare in toto l’essenza di uno sguardo garbato ma pur sempre feroce nel dissacrare tutto ciò che può essere sottoposto a critica sociale col sorriso sulle labbra. Una risata sobria e misurata da servire al pubblico come antidoto al cattivo gusto imperante al cinema ma anche come ricostituente dell’anima in tempi di cupa crisi globale.

Se è infatti vero che la vicenda intorno alla quale ruota la spumeggiante sceneggiatura firmata dal regista stesso con l’ex moglie Louise Stratton sembra un concentrato di Lubitsch, Sturges e Walsh passato attraverso il filtro della commedia newyorkese di Woody Allen, è ugualmente vero che Bogdanovich aggiorna l’abito con cui presenta la sua confezione affidando i ruoli dei protagonisti a due star modernissime del calibro di Owen Wilson (il regista teatrale col vizietto di Pigmalione) e Imogene Potts (l’aspirante attrice che si mantiene facendo la escort negli alberghi di lusso) per ancorare saldamente il suo film nei giorni nostri ed evitare che lo si cataloghi esclusivamente come un’operazione nostalgia.

Definizione questa che, d’altro canto, non dovrebbe risuonare come un’offesa. Soprattutto se si pensa che Tutto può accadere a Broadway è di fatto una vera incursione nel passato e nel vissuto di Bogdanovich stesso. Scritto nel lontano 1979 quando il regista newyorkese stava girando Saint Jack a Singapore e pensava all’amico John Ritter per la parte del regista donnaiolo e filantropo, lo script del film finì  infatti in un cassetto quando Ritter morì all’improvviso e lì rimase per anni.

Fino a quando il copione è stato riesumato (anche grazie all’interessamento di Wes Anderson e Noah Baumbach, qui produttori esecutivi nonché protegé dichiarati del più anziano maestro e mentore nel campo della commedia sofisticata) quasi quarant’anni anni dopo insieme a una trovata geniale legata a filo doppio a quello stesso film: e cioè l’idea — confermata da Bogdanovich stesso sulla base di un’analoga esperienza fatta in quei lontani giorni sul set a Singapore con un gruppo di prostitute locali ingaggiate per parti minori e poi omaggiate di una somma adeguata per rifarsi una vita lontano dalla strada — di un affermato regista teatrale che si invaghisce di professioniste del sesso e poi cerca di redimerle offrendo loro denaro affinché realizzino i propri sogni senza dover ricorrere al mestiere più antico del mondo.

Nella girandola helzapoppiana di equivoci a catena ingenerati dall’irrompere della giovane attrice-escort nella vita del regista Albertson (con inevitabili e spassosissimi strascichi a catena che coinvolgono tutti i satelliti del suo mondo professionale e umano, ivi inclusa una psicanalista fuori di testa che ha in cura un giudice innamorato della squillo protagonista) a reggere alla grande il gioco non è solo la gestione perfetta dei tempi da parte di un regista che sa come usare al meglio i meccanismi tipici del comico, ma ugualmente un cast di alto spessore in cui anche ai gregari di lusso come Cybill Sheperd e Tatum O’Neil bastano pochi fotogrammi per lasciare il segno.

Se lo si vede come una sorta di film testamento cui Bogdanovich affida il compito di riassumere interi decenni di poetica filmica ma anche come sintesi di quella mania citazionistica che il suo cinema ha sempre palesato (essendo egli anche un critico onnivoro), non può certo passare inosservato lo sbalorditivo cameo di Quentin Tarantino nella sequenza di chiusura.

Come se Bogdanovich volesse congedarsi dal pubblico indicando in Wes Anderson e Noah Baumbach due possibili eredi spirituali ma soprattutto in Tarantino il cineasta cui affidare il testimone del cinema che guarda con rimpianto al passato sforzandosi di mantenerne vivo lo spirito attraverso un costante riferirsi a qualcosa che, pur essendo già stato girato e risultando troppo «alto» per poter essere uguagliato, ciò non ostante va riproposto come modello inappellabile di riferimento per gli autori delle nuove generazioni.

Trama

Isabella Patterson è una giovane aspirante attrice di Brooklyn che per sbarcare il lunario fa la squillo di alto bordo. Un giorno le capita come cliente Arnold Albertson, celebre regista teatrale con passioni da filantropo, il quale – dopo una notte di intensa passione –  le offre 30.000 dollari per realizzare tutti i propri sogni e abbandonare il mestiere di escort. Quando Albertson le assegna una parte chiave nell’opera che sta allestendo a Broadway, il suo arrivo sulle scene fa scaturire una girandola di equivoci a catena destinati a cambiare per le sempre non solo la sua vita ma anche di quanti ruotano intorno al regista stesso, alla sua famiglia e al suo bizzarro entourage.


di Redazione
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